giovedì 30 luglio 2015

RdP – Metti una mattina alla Scala: la prova generale del factotum di Siviglia

Avviso alle anime sensibili: questa nuova puntata della rubrica del piccione è paesanona assai. Ma proprio assai. Ma proprio paesanona eh, intrisa di quell’entusiasmo paesano del villico che vede per la prima volta la città rimando abbacinato dalla sua grandeur.
Ciò di cui Ambrogio ci aiuterà a dire, infatti, riguarda la mia prima volta alla Scala, il supremo tempio scaligero dell’opera lirica. In ventinove, onoratissimi (?) anni di vita mediolana, infatti, ebbi modo di solcare quel portone sono alle elementari, in gita scolastica: alta quanto ora, visitai in realtà il Museo Teatrale della Scala di Milano, beandomi dei suoi ambienti carichi (già allora, come vedete, il gusto per il barocco…) e delle avvincenti storie legate al mondo dell’opera e dei suoi sublimi interpreti, grazie a una guida ganzissima che non lesinò a noi marmocchietti dettagli splatter tipo i capelli grigi di Chopin intecati (vero, nulla di splatter, ma c’avevo otto anni e che si potessero conservare i capelli d’un morto non l’avevo pensato) e la testa del verme solitario che la Maria Callas deglutì con un bel bicchiere d’acqua nel tentativo di dimagrire, in un momento in cui era un po’ tracagnotta, con tutti i disagi che tale sovrappeso poteva causare a una diva molto attenta alla propria immagine oltreché alla propria arte. A pensarci bene nemmeno questo è splatter, del resto chi di noi non ha mai pensato di brindare con una tenia? Molti di noi lo avranno anche fatto, non negate.
E chiuso il filone splatter la buona guida aprì quello tragico-tristone: parlandoci di Verdi, grandissimo protagonista della storia della Scala, che ideò la melodia malinconica e dolcissima del Va’ pensiero ancora addolorato e sconvolto dalla morte, avvenuta nel giro di pochi mesi, della moglie e dei suoi figlioletti. Evocando infine la morte del Maestro, allorquando i milanesi cosparsero di paglia le strade del quartiere ove egli risiedeva, onde non turbare, col rumore irrispettoso delle loro carrozze, l’ultimo viaggio dell’illustre e amatissimo concittadino d’adozione… Perbacco, che allegria queste gite scolastiche! Scherzo naturalmente, il ricordo dopo decenni quasi secoli da quel dì è ancora vivido, il che attesta che l’uscita fu ben congeniata; io la rimembro come una delle più interessanti di sempre, impreziosita peraltro, oltre che da una bella sosta nel solenne foyer del teatro, tutti seduti per terra, come usa con le mini scolaresche, da un rapido ma stupefacente affaccio da un palchetto della sala: oddio che meraviglia! Che ambiente maestoso si aprì al mio sguardo di moccoletta!
E la vostra bugnato deve aver conservato un (bel) po’ quel cervellino lì, se nell’occasione della sua entrée alla Scala come spettatrice d’opera lirica ha mantenuto eguale livello di stupitissimo stupore.

Ma com’è successo che bugnato, quella bugnato che piangeva lacrime di coccodrillo preparando all’ultimo i suoi compiti di musica mandando a memoria un testo del conservatorio, è approdata sin qui, nel blasonato cuore meneghino della lirica, l’elegante edificio neoclassico di Giuseppe Piermarini, scatola grandiosa d’un interno sfavillante?
È accaduto che in famiglia s’ottennero fortunosamente dei biglietti per assistere alla prova generale del rossiniano Barbiere di Siviglia nell’allestimento storico di Jean-Pierre Ponnelle e nella direzione orchestrale di Massimo Zanetti.
Si poteva forse dir di no ad una occasione sì succosa? E la sugosità del tutto, mi si permetta di dire, al di là della superba opportunità, è stata per me rappresentata dalla possibilità d’assistere proprio ad una prova, di mattina, non dunque nel canonico orario serale delle messinscene. Un appuntamento informale dunque, come piace a me, più vero forse (e solo il cielo sa quante implicazioni si inneschino nel definire vero uno spettacolo teatrale – solo il cielo e pure chi ha preparato un esame di teatro mon dieu!), non ‘ufficiale’ dunque ma con intatta tutta la solennità d’un appuntamento al Teatro alla Scala. E infatti è stata una mattinata bellissima.
Caso fortunaterrimo ha voluto, peraltro, che il posticino rimediato per me fosse ubicato in un palchetto, gesù, un palco di proscenio, il primo del second’ordine. E signori miei, mai spettacolo avrebbe potuto per me essere emozionante. Il velluto rosso, le sedie (tutte meravigliosamente scompagnate) con il profilo degli schienali dorato, la carta da parati damascata, la porticina chiusa alle mie spalle e, davanti a me, l’ambiente fantastico della sala, l’imponente lampadario, la buca dell’orchestra e il palco. Vicino, vicinissimo, tanto quasi da poter scorgere il battito di ciglia degli interpreti, e ogni sfumatura della loro espressività.

Ora, che aggiungere? Poco altro, essendo io né una melomane né un’esperta. Ma ai miei occhi e alle mie orecchie profane lo spettacolo è risultato divertente, scoppiettante, strepitosamente godibile e bello. Bello, veramente bello. Bravi gli interpreti, espressivi, appunto, a cominciare dal mattatore Figaro, il proraso di Siviglia, un carismatico baritono settantatreenne, ci dice wikipedia, dotato d’una energia di cui io neanche la metà, e nei giorni buoni eh. Divertenti tutti, belle le donne in scena (non esattamente le classiche soprano di mezza età simpaticamente barilotte), irresistibile il servitore Fiorello, un basso cinese, e fantastica e fiabesca la scenografia e i suoi meccanismi (segnalo peraltro la presenza in scena d’una sedia a dondolo Thonet uguale a quella che abbiamo in casa – ed era proprio quella infatti, tornando a casa non l’abbiam trovata più ahah). Eppoi bella, leggera e guizzante l’opera di Rossini (con un Anello del Nibelungo sarebbe andata peggione credo), l’opera italiana più rappresentata all’estero per i suoi meccanismi musicali e comici esplosivi; una storia in fondo classica, fors’anche banale, fatta d’un amore avversato, di equivoci, inganni e travestimenti, di riconoscimenti e agnizioni, ma anche di idee geniali (qui partorite dal factotum della città), per consentire ai due amorosi di coronare il loro sogno d’amore, con un occhio disincantato al potere sommo del vil danaro. Insomma, quasi degli archetipi di storie, dei topoi, degli ingredienti ricorrenti, delle carte di Propp; ma d’altra parte le carte bisogna pure saperle giocare. Rossini le ha giocate in maniera eccelsa, intessendo una trama musicale brillantemente architettata, capace di tenere alta, coi suoi salti e le sue ricche invenzioni, l’attenzione dello spettatore, sino al finale. E la regia qui ha fatto altrettanto, confezionando un’opera moderna, piena di momenti sapientemente spassosi grazie al grande talento degli attori in scena, che ho avuto modo di osservare da un’angolazione molto più che privilegiata… Dalla mia posizione ho avuto anche la meravigliosa opportunità di seguire il grandioso lavoro dei musicisti e del direttore d’orchestra, secondo polo d’uno spettacolo, quello lirico, che è bicefalo, partorito dallo sguardo registico e dal tocco del maestro. E guardare l’orchestra, quel giorno ‘in borghese’, adagiata nella sua buca, è stato una sorta di secondo spettacolo: è stato molto facile farsi rapire dagli sforzi dello scapigliato e compenetrato direttore, e, io che so suonare giusto il citofono, dalla bravura dei musicisti, peraltro sbarbi assai, dalle mosse esatte e repentine delle mani sugli strumenti, nonché, visione veramente ipnotica, dal movimento ritmico e perfettamente sincronizzato degli archetti sulle corde degli archi. Pura meraviglia. Pura meraviglia stare là, affacciata al palchetto, riconoscere i miei gengis in platea e assistere alla mia prima opera lirica… v’avevo detto che sarebbe stato un post paesanone! Peccato solo non avere con me la mia fida reflex, cosa che ha fatto sì ch’io mi riducessi a scattare foto paesane in modo paesano, con l’aifon, con i risultati paesani che potrete apprezzare. 
Ad ogni modo, volete mettere l’emozione? D’un sabato mattina di luglio, in una Milano bellissima e assolata (mitigo ma ci sarebbe da parlare di caldazza, ma comunque), in compagnia dei miei eleganti gengis, con una visuale stupenda e nell’ambiente magico d’un palchetto del famosissimo e blasonato Teatro alla Scala di Milano, a seguire un’opera lirica frizzante e briosa (mica l’epica tetesca barbogia di Wagner). 
Veramente una grossa fortuna (mammina, hai visto, non ho scritto culo!) questa mia prima volta alla Scala… Grossa fortuna e immensa, stupita (paesana) meraviglia negli occhi, nel cuore e nelle orecchie. D’altra parte, si dice, e sarà pur vero, che la prima volta non la si scorda mai.





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