Avviso alle anime
sensibili: questa nuova puntata della rubrica del piccione è paesanona
assai. Ma proprio assai. Ma proprio paesanona eh, intrisa di quell’entusiasmo
paesano del villico che vede per la prima volta la città rimando abbacinato
dalla sua grandeur.
Ciò di cui Ambrogio ci
aiuterà a dire, infatti, riguarda la mia prima volta alla Scala, il supremo tempio
scaligero dell’opera lirica. In ventinove, onoratissimi (?) anni di vita mediolana, infatti, ebbi modo di solcare quel
portone sono alle elementari, in gita scolastica: alta quanto ora, visitai in
realtà il Museo Teatrale della Scala di Milano, beandomi dei suoi ambienti
carichi (già allora, come vedete, il gusto per il barocco…) e delle avvincenti
storie legate al mondo dell’opera e dei suoi sublimi interpreti, grazie a una
guida ganzissima che non lesinò a noi marmocchietti dettagli splatter tipo i
capelli grigi di Chopin intecati (vero, nulla di splatter, ma c’avevo otto anni
e che si potessero conservare i capelli d’un morto non l’avevo pensato) e la
testa del verme solitario che la Maria Callas deglutì con un bel bicchiere
d’acqua nel tentativo di dimagrire, in un momento in cui era un po’ tracagnotta,
con tutti i disagi che tale sovrappeso poteva causare a una diva molto attenta
alla propria immagine oltreché alla propria arte. A pensarci bene nemmeno
questo è splatter, del resto chi di noi non ha mai pensato di brindare con una
tenia? Molti di noi lo avranno anche fatto, non negate.
E chiuso il filone splatter
la buona guida aprì quello tragico-tristone: parlandoci di Verdi, grandissimo
protagonista della storia della Scala, che ideò la melodia malinconica e
dolcissima del Va’ pensiero ancora addolorato e sconvolto dalla morte, avvenuta
nel giro di pochi mesi, della moglie e dei suoi figlioletti. Evocando infine la
morte del Maestro, allorquando i milanesi cosparsero di paglia le strade del
quartiere ove egli risiedeva, onde non turbare, col rumore irrispettoso delle
loro carrozze, l’ultimo viaggio dell’illustre e amatissimo concittadino d’adozione…
Perbacco, che allegria queste gite scolastiche! Scherzo naturalmente, il
ricordo dopo decenni quasi secoli da quel dì è ancora vivido, il che attesta
che l’uscita fu ben congeniata; io la rimembro come una delle più interessanti
di sempre, impreziosita peraltro, oltre che da una bella sosta nel solenne
foyer del teatro, tutti seduti per terra, come usa con le mini scolaresche, da
un rapido ma stupefacente affaccio da un palchetto della sala: oddio che
meraviglia! Che ambiente maestoso si aprì al mio sguardo di moccoletta!
E la vostra bugnato deve
aver conservato un (bel) po’ quel cervellino lì, se nell’occasione della sua entrée
alla Scala come spettatrice d’opera lirica ha mantenuto eguale livello di
stupitissimo stupore.
Ma com’è successo che
bugnato, quella bugnato che piangeva lacrime di coccodrillo preparando
all’ultimo i suoi compiti di musica mandando a memoria un testo del
conservatorio, è approdata sin qui, nel blasonato cuore meneghino della lirica,
l’elegante edificio neoclassico di Giuseppe Piermarini, scatola grandiosa d’un
interno sfavillante?
È accaduto che in famiglia
s’ottennero fortunosamente dei biglietti per
assistere alla prova generale del rossiniano Barbiere di Siviglia
nell’allestimento storico di Jean-Pierre Ponnelle e nella direzione orchestrale
di Massimo Zanetti.
Si poteva forse dir di no
ad una occasione sì succosa? E la sugosità del tutto, mi si permetta di dire,
al di là della superba opportunità, è stata per me rappresentata dalla
possibilità d’assistere proprio ad una prova, di mattina, non dunque nel
canonico orario serale delle messinscene. Un appuntamento informale dunque, come piace a me, più vero forse (e solo il cielo
sa quante implicazioni si inneschino nel definire vero uno spettacolo teatrale – solo il cielo e pure chi ha
preparato un esame di teatro mon dieu!), non ‘ufficiale’ dunque ma con intatta
tutta la solennità d’un appuntamento al Teatro alla Scala. E infatti è stata
una mattinata bellissima.
Caso fortunaterrimo ha
voluto, peraltro, che il posticino rimediato per me fosse ubicato in un palchetto,
gesù, un palco di proscenio, il primo del second’ordine. E signori miei, mai
spettacolo avrebbe potuto per me essere emozionante. Il velluto rosso, le sedie
(tutte meravigliosamente scompagnate) con il profilo degli schienali dorato, la
carta da parati damascata, la porticina chiusa alle mie spalle e, davanti a me,
l’ambiente fantastico della sala, l’imponente lampadario, la buca
dell’orchestra e il palco. Vicino, vicinissimo, tanto quasi da poter scorgere
il battito di ciglia degli interpreti, e ogni sfumatura della loro
espressività.
Ora, che aggiungere? Poco
altro, essendo io né una melomane né un’esperta. Ma ai miei occhi e alle mie
orecchie profane lo spettacolo è risultato divertente, scoppiettante,
strepitosamente godibile e bello. Bello, veramente bello. Bravi gli interpreti,
espressivi, appunto, a cominciare dal mattatore Figaro, il proraso di Siviglia, un carismatico baritono settantatreenne, ci dice wikipedia, dotato d’una energia di cui io neanche la
metà, e nei giorni buoni eh. Divertenti tutti, belle le donne in scena (non
esattamente le classiche soprano di mezza età simpaticamente barilotte),
irresistibile il servitore Fiorello, un basso cinese, e fantastica e
fiabesca la scenografia e i suoi meccanismi (segnalo peraltro la presenza in
scena d’una sedia a dondolo Thonet uguale a quella che abbiamo in casa – ed era
proprio quella infatti, tornando a casa non l’abbiam trovata più ahah). Eppoi
bella, leggera e guizzante l’opera di Rossini (con un Anello del Nibelungo
sarebbe andata peggione credo), l’opera italiana più rappresentata all’estero
per i suoi meccanismi musicali e comici esplosivi; una storia in fondo classica,
fors’anche banale, fatta d’un amore avversato, di equivoci, inganni e
travestimenti, di riconoscimenti e agnizioni, ma anche di idee geniali (qui
partorite dal factotum della città), per consentire ai due amorosi di coronare il loro sogno d’amore, con un occhio
disincantato al potere sommo del vil danaro. Insomma, quasi degli archetipi di
storie, dei topoi, degli ingredienti ricorrenti, delle carte di Propp; ma d’altra
parte le carte bisogna pure saperle giocare. Rossini le ha giocate in maniera
eccelsa, intessendo una trama musicale brillantemente architettata, capace di
tenere alta, coi suoi salti e le sue ricche invenzioni, l’attenzione dello
spettatore, sino al finale. E la regia qui ha fatto altrettanto, confezionando
un’opera moderna, piena di momenti sapientemente spassosi grazie al grande
talento degli attori in scena, che ho avuto modo di osservare da un’angolazione
molto più che privilegiata… Dalla mia posizione ho avuto anche la meravigliosa
opportunità di seguire il grandioso lavoro dei musicisti e del direttore
d’orchestra, secondo polo d’uno spettacolo, quello lirico, che è bicefalo,
partorito dallo sguardo registico e dal tocco del maestro. E guardare l’orchestra, quel giorno ‘in borghese’, adagiata nella sua buca, è stato una
sorta di secondo spettacolo: è stato molto facile farsi rapire dagli sforzi
dello scapigliato e compenetrato direttore, e, io che so suonare giusto il
citofono, dalla bravura dei musicisti, peraltro sbarbi assai, dalle mosse esatte e repentine delle
mani sugli strumenti, nonché, visione veramente ipnotica, dal movimento ritmico
e perfettamente sincronizzato degli archetti sulle corde degli archi. Pura
meraviglia. Pura meraviglia stare là, affacciata al palchetto, riconoscere i
miei gengis in platea e assistere alla mia prima opera lirica… v’avevo detto
che sarebbe stato un post paesanone! Peccato solo non avere con me la mia fida
reflex, cosa che ha fatto sì ch’io mi riducessi a scattare foto paesane in modo
paesano, con l’aifon, con i risultati paesani che potrete apprezzare.
Ad ogni modo, volete mettere l’emozione? D’un sabato mattina di luglio, in una Milano bellissima e assolata (mitigo ma ci sarebbe da parlare di caldazza, ma comunque), in compagnia dei miei eleganti gengis, con una visuale stupenda e nell’ambiente magico d’un palchetto del famosissimo e blasonato Teatro alla Scala di Milano, a seguire un’opera lirica frizzante e briosa (mica l’epica tetesca barbogia di Wagner).
Ad ogni modo, volete mettere l’emozione? D’un sabato mattina di luglio, in una Milano bellissima e assolata (mitigo ma ci sarebbe da parlare di caldazza, ma comunque), in compagnia dei miei eleganti gengis, con una visuale stupenda e nell’ambiente magico d’un palchetto del famosissimo e blasonato Teatro alla Scala di Milano, a seguire un’opera lirica frizzante e briosa (mica l’epica tetesca barbogia di Wagner).