Ma interrompiamo per un attimo il gioviale racconto d’una città ariosa, tutta parchi e delizie che ho vergato sinora, per affrontare un brano mediolanense un tantinello più complesso, sicuramente meno immediato nel piacere che potrà generare nel visitatore, ma non per questo meno affascinante. Affascinante come tutte le cose che producono conoscenza, e che stimolano conseguentemente un pensiero, un’opinione, e dunque una presa di posizione, tramite in questo caso l’esperienza d’un vivido scuotimento emozionale capace di irraggiarsi alle papille gustative cerebrali; col valore aggiunto d’essere un’acquisizione preziosamente maturata sul campo, e non desunta dai libri. Un piacere di tipo storico insomma. Tutta questa fumosa introduzione per dire in soldoni che stiamo parlando della chiesa, anche questa centralissima come San Satiro, di San Bernardino alle Ossa, e d’una sua appendice architettonica.
La prima volta che ho visitato San Bernardino
ero da sola. Era una scura mattina d’un freddo inverno milanese. Ne venni a
conoscenza grazie a una mia cara zia, che di ciò ringrazio, e che si chiama zia
Grazia (avevo voglia d’allitterare). Così mi dissi che avrei dovuto per forza
farci un giro. Rigorosamente da sola però: senza distrazioni, battute, alleggerimenti.
Una bella prova di coraggio per me, che ho la spavalderia grossomodo di un
coniglio nano.
E questo perché lo spettacolo al quale s’assiste
una volta percorso sino in fondo il corridoio a destra, indicato da un cartello
con la scritta ‘Ossario’ e relativa freccia, può legittimamente impressionare e risultare
inquietante.
Preceduta da un atrio rettangolare e
accessibile dopo aver salito qualche gradino, la chiesa, ricostruita nel 1712 a
seguito d’un incendio, possiede un aspetto piuttosto chiaro e luminoso. La nota
lugubre e orrorifica è però anticipata dalla statuetta d’un neonato abbigliato
di trine, dall’espressione vuota e fissa, un po’ come certi manichini della
parte chinatown di Milano; anche se
probabilmente detta statuina ha un più nobile e prossimo parente nel bambinello
dell’Aracoeli di Roma Capitale, anch’esso infagottato di merletti e
spaventosità. Ma che gli viene in mente
a ‘sti chierici, dico io. È poi volgendo verso destra che si intravede il
secondo appetizer dello spettacolo scary che si intravedrà più oltre. Una
parete di ex voto metallici, appesi in teche di legno e velluto,
immancabilmente a forma di cuore, con la tipica punta inclinata; un oggetto
che, confesso, mi impressiona sempre un po’, per l’odore acre che sprigiona di
superstizione e Controriforma. E infine eccolo, in fondo al corridoio. Ciò che
motiva la denominazione “alle Ossa” della chiesa. Il cartello e l’emerito
custode, un mezzo clochard che staziona davanti all’edificio e che vi accoglie dandovi
il buongiorno e indicandovi l’ossario con l’intenzione di ricevere un nichelino
in cambio dell’informazione, non mentivano. Eccolo infatti, l’ossario. Quadrato,
non particolarmente ampio ma nemmeno vivaddio particolarmente scuro, illuminato
da qualche finestra di fortuna. L’ossario, con l’altare e le panche.
E alle pareti il motivo per cui molto
probabilmente siete venuti al Verziere. Nicchie riempite di ossa umane
trattenute da grate. Ossa disposte non a muzzo ma con ragionata precisione,
assecondando un progetto decorativo evidente. In ogni nicchia, al centro, è
realizzata, grazie all’accostamento dei teschi, una croce. Teschi uno
sull’altro e uno accanto all’altro, con in mezzo un mare di vertebre. E non
solo: scorrendo l’occhio verso l’alto, ecco ancora filari di teschi che corrono
lungo cornicioni e scanalature prima della volta. E alle colonne, ulteriori ex
voto intecati, e decorazioni di teschi e ossa affiancate a realizzare motivi
ornamentali, in uno stile oltrebarocco, quasi con leziosità rococò. C’è pure il
simbolo dei pirati, teschio e tibie incrociate! Ma che gli viene in mente a
‘sti chierici, ridico, numiddidio! E ci sarebbe veramente da chiederselo in
effetti.
Ora, sulla provenienza delle ossa circolano
diverse voci. Qualcuno ama raccontare che siano appartenute a deliquenti e
briganti giustiziati; ma con maggiore probabilità si trattava invece delle
spoglie dei defunti del vicino Ospedale del Brolo. Ancora l’annoso problema dei
mediolani che non sapevano dove smaltire i corpi dei morti della città? Bè, non
in questo caso. Non è conservazione questa. È gusto decorativo, certo un poco
dubbio forse. Dubbio, già, sfido a dire il contrario. Dubbio ma non affatto
inedito, nella storia degli edifici di culto cattolici. Resti umani incastonati
a prefigurare l’ascensione e il trionfo delle anime raccontati dall’arioso affresco
della volta, opera di Sebastiano Ricci (1695), un trompe l’oeil illusionistico
tra angeli e putti, messo lì a rianimare l’occhio e l’animo dell’osservatore
avvilito da questo insistito e debordante memento mori.
Bon, che effetto fece a me vedere l'ossario
quando fu che c’andai per la prima volta, solina, in una mattina brumosa d’un deserto
giorno feriale? Apparte che mi fece più impressione l’attigua chiesa di Santo
Stefano, scurissima quasi da non percerpirne visivamente l’altare, ma questa è
un’altra storia, ma se si esclude un signore non esattamente in sé che con una vissuta
sportina di plastica tipo supermercato se ne stava in un angolo dell’ossario a salmodiare
versi incomprensibili in una lenta nenia a bassa voce e con gli occhi chiusi,
la mia reazione non fu di spavento, orrore o raccapriccio. Ma di pena. Per
quelle povere ossa costrette all’esposizione perpetua. Per l’inciviltà d’un
destino post mortem non scelto ma imposto (vabbè ch’eran tempi che pure il
destino pre mortem era piuttosto, come dire, indirizzato
dalla Madre Chiesa). Per questi uomini e donne, anime forse non sante, forse peccatrici,
addossate e costrette a far mostra di sé negli effetti prodotti dal lavorìo
sottraente della morte, che restituisce di noi solo l’interno scarnificato (anche
se c’è da scommettere che tale materiale umano abbia subito come minimo una
bella spazzolatura per poter essere usato, alla maniera del solenne Balkan Baroque di Marina Abramovic). Uomini
che un volto ce l’avevano eccome, diamine. E che forse non avrebbero gradito
quella sorte. Anime costrette a fare sensazione, poiché questo era lo scopo in
fondo. Per questo ogniqualvolta mi capiti di mettere piede nella cappella dell’Ossario
di San Bernardino alle Ossa, a Milano, mi pervade un automatico senso di
rispetto, e di solidarietà per quelle vite del passato, violate e trasformate
senza scrupolo, dopo l’ora del loro ultimo respiro, in uno spettacolo visivo
barocco, raro, d’effetto. Una sorta di pornografia della morte.
Ma questo luogo milanese, calco d’altri
sparsi in varie latitudini del mondo cattolico, rimane invito, ineludibile, a una riflessione che sollecita
corde mentali più ascose, utili a conoscere meglio, e quindi a valutare, certe
pratiche e soprattutto certe secolari istituzioni, nell’azione e nell’illimitato
potere che hanno impunemente potuto esercitare nel diacronico snodarsi della
Storia. L’oscenità
di questo luogo, il suo raccapriccio, sta in fondo tutto qui.
Suggerimento
per la visita
(Rubrichetta del a chi
vuoi che gliene impipi)
Dunque
ordunque, se vi va d’andarci, e sarebbe la prima volta, andateci da soli. Dopo
portateci amico/collega/nonna/zio, ma appunto, dopo. È tutta un’altra cosa. Se non altro per godervi di sottecchi
il terror e la soggezione negli occhi del vostro congiunto, che per un attimo
forse vi odierà per averlo portato lì, ma poi non potrà far altro che amarvi,
per tutta la vita, pensando che siete maledettamente ganzi a conoscere queste
chicche!