Ordunque, avendo una storia a distanza, sto affilando come una lama la mia conoscenza delle stazioni ferroviarie milanesi. Vi avevo già detto qualcosa a proposito della Stazione Centrale, ma invero la stazione che frequento di più è quella di Porta Garibaldi. Nulla da dire in particolare sulla stazioncella, piccina e senz’altro meno dispersiva della Centrale; c’è chi infatti la preferisce per questo. Quello che è davvero degno d’attenzione – non solo per i milanès in fondo, ma anche per chi è interessato all’architettura d’oggidì e alle trasformazioni urbane – è l’intorno della stazione, il quartiere che, come da titolo, sta trasformando Milano in: un’altra cosa.
Il modo migliore per
accorgersene è arrivarci in auto, in stazione, dal cimitero Monumentale. Oggi –
domani potrebbe già essere, per l’appunto, un’altra cosa – questo distretto di
città è un cantierone tortuoso e incasinato assai, roba che nel tratto di
strada precedente potrebbe quasi strapparvi un bestemmione mentre siete alla
guida, specie se, come me, al volante non siete esattamente degli sgamati.
Poi però vi avvicinate pian
piano ai nuovi palazzoni, recumbenti su piazza Gae Aulenti: e anche il cuore
indurito del guidatore incacchiato non può, non può non farsi rapire da ciò che
gli si para davanti. Uno spettacolo irreale, che personalmente mi fa scoppiare
a ridere (vabbè sì, questa è l’insania che c’è in me) forse come reazione di
distensione dopo la concentrazione della guida. E allora rido, sì, me la rido
di brutto, perché sono arrivata in stazione e ce l’ho fatta, e me la rido,
scoppio a ridere e me la rido dentro alla grande perché guardo dal parabrezza
la mia città e vedo cosa diventa, e me la rido, e penso che Milano in fondo è la mia sposa (cit.) ed è bello
accorgersi di essere ancora innamorati persi del proprio coniuge, capace di
darci ancora grandi soddisfazioni.
Già, ma che diavolo si vede dal parabrezza?
Chiedo scusa, ho divagato, ora
lo racconto cercando di recuperare la lucidità.
La prima visione è quella
della Torre Unicredit, il grattacielo più alto d’Italia*, opera dell’italo-argentino
César Pelli, circondato dai suoi più modesti colleghi. La Torre Unicredit è un
complesso di tre grattacieli, che descrivono con le loro planimetrie un
semicerchio, assecondando la forma circolare, volutamente classica, di piazza
Gae Aulenti.
Uh, il grattacielo, che
novità! Piaccia o non piaccia però, costoro c’han maledettamente preso: a meno
di due anni dalla realizzazione sta sul serio diventando il nuovo simbolo di
Milano, col suo pinnacolo grafico che si vede anche dalla periferia della
città, e pure dalle tangenziali, guglia in una città nota per le guglie.
D’accordo, l’idea del grattacielo non è originale e direi pure vecchia (d’altra
parte, porino, il buon Pelli vi ricordo è classe 1926, non proprio un giovanotto).
E manco è originale l’avervi allocato una banca, l’Unicredit, su cui puoi
contare finché non fallisce. Insomma, il solito arrogante saggio di
finanzcapitalismo. Era meglio una onlus, un circolo arci, o un circolo della
birra diamine, andava bene pure quello.
E invece no: tutta la zona
di piazza Gae Aulenti sembra nata per il trastullo dei gommini del tergi (per conoscere il significato di questa
espressione, citofonare Egidio ore pasti:
ne è lui l’involontario coniatore). All’ingresso della Torre Unicredit, ad
esempio, troneggia Red, declinazione commerciale del mondo delle già fichette
librerie Feltrinelli prontamente adattata al contesto: pochi libri ma vacui,
atmosfera da bistrot fintofrancese, e un cesso preceduto dalle parole di – oh!
– Catherine Zeta-Jones, moglie del figlio di Spartacus, bella snappola lei per
carità, ma citarne le massime in una libreria no, che ci spiega come il segreto
di un buon matrimonio sia quello di avere un bagno a testa, uno per consorte.
Bella frase, io non riuscirò manco a comprarmi un magazzino delle scope per
risolvermi il problema della casa, raddoppiare il numero delle tazze del cesso è
francamente l’ultima delle mie preoccupazioni. Ed è stato qui esattamente qui
che, tra le visioni sconfortanti di radical gommini dall’aria annoiata dai loro
agi, con sottobraccio Repubblica e Sole 24 Ore, che con dita untazzate di
croissant sfogliano le pagine dei libri in esposizione, sovente umettandosi con
la loro regal saliva il regal polpastrello, ho pensato che il se il buon
Giangiacomo (Feltrinelli) avesse veduto, o anche solo immaginato tutto questo, sarebbe corso ad appendersi al traliccio sotto al quale trovò in altro modo la morte,
cercandone a piene mani il fascio d’alta tensione.
Ma se descrivo tutto questo, non è per disgustarvi, lo giuro. Perché nonostante tutto a me questa piazza Gae Aulenti, così grigia nei suoi eleganti toni di grigio, piace. E obbiettivamente non si può dire che sia brutta o non riuscita, anzi. Ci si fa una gradevole passeggiata in mezzo, attraversando su di una passerella una fontana dall’acqua tremolante ai cui bordi corre un sedile per sostare (e anche per bere il caffè: fatevi furbi, portatevi un thermos, dei cioccolatini, mamma e papà e i vostri amici, e sarà festa senza aver foraggiato il Red là di fronte). Vista da lì, la guglia della torre Unicredit sembra un ago non che gratta, ma che punge il cielo.
Ma la sortita prosegue, tra
le vetrine dei vari negozi, alcuni già aperti e altri che poi apriranno. Ma non
sono queste le cose cui prestare attenzione. Moderatamente carina è l’idea
degli ottoni, il massimo della minchiata simpatica, con in alto un suggestivo
squarcio che inquadra sempre lui, il pinnacolone. Poi da qui passeggiando si
vede il Bosco Verticale, progetto dello Studio Boeri consistente anch’esso di
due grattacieli. Ma non fatevi ingannare dalle idee pseudodemocratiche di cui
vorrebbe farsi latore: ‘più verde per
tutti, più ossigeno alla città’; balle, non è verde cittadino, non è verde
per passeggiare, leggere, giocare, darsi appuntamento. Se lo godranno i
gomminoni del tergi che c’andranno ad abitare, insieme a cicale, cavallette,
zanzare e grilli. Ma ricordino i gommini: per queste bestiole il passo dalla
pianticella sul terrazzo alla vostra camera da letto sarà breve, molto breve.
Più bello il lato sulla destra
di chi è arrivato alla piazza dalla Stazione Garibaldi, attraverso il
sottopasso o le scale mobili coperte dalla tettoia. I palazzi, anche parecchio
pregevoli e nuovi, tornano a misura (non affatto male la Corte Verde di Corso Como,
di Cino Zucchi, cugina di largo Zanuso, progetto dello stesso studio e si vede):
e la cosa migliore è la discesa verso corso Como, architettonicamente ben
azzeccata e piacevole (anche qui comunque apriranno presto negozi luzzuosi). E
girando ancora verso destra, la vera meraviglia: il giardino Anna Politkovskaja, in realtà una strisciolina di verde, ma così graziosa e
defilata e così surreale nello spazio che si è ritagliata dietro a questi
palazzoni lucidi e nuovi di pacca, che non può non commuovere, per le sue
panchine, i cespugli, le roselline, i sentierini ed anche naturalmente per la
buona persona a cui è intitolato.
Con questo si conclude il giro di Porta Nuova, nel complesso piacevole, dai. L’immagine che mi tengo è quella, arrivando in auto, dei palazzoni grigi dal profilo aguzzo che si stagliano nel grigio del cielo plumbeo della città: una sorta di gara tra sfumature, giusto interrotta dalle lucine rosse che bordeggiano per questioni di sicurezza i punti estremi degli edifici, immagine vagamente apocalittica. Anche le gru dei cantieri ancora aperti sembrano amalgamarsi nel paesaggio, simbolo concreto della città in trasformazione, della Milano che diventa, si diceva, un’altra cosa. Io le gru lascerei lì anche quando sarà tutto finito.
Per il resto s’è già in
parte detto: una banca a guardarci dall’alto verso il basso, cantieri a volte
fermi perché le imprese sono candidamente insolventi, le mani in pasta di
Ligresti.
Ecco perché tifo per le
cavallette (già avvistata qualcuna in zona). E per i topi. Già, di topi qui ce
ne sono parecchi, nel parcheggio davanti alla stazione, lato Tecnimont.
Sfrecciano di qua e di là, si dicon cose e corrono via, ravanano nella
spazzatura, fanno simpatiche scorribande. E anche questa è una cartolina di
Milano: il grattacielo Unicredit con la sua algida cuspide e in basso la vivace
comunità di ratti che saccheggia, in un trionfo d’anarchia e collettivismo, i
cassonetti dell’immondizia. E io, appunto, tifo per i topi.
* EDIT – [12/2014]
Ebbene, la Torre Unicredit non è più l’edificio più alto
d’Italia. L’illustre (?) primato è
rimasto in Milano, conquistato da un grattacielo in zona vecchia fiera, opera d’un
noto architetto nipponico, Arata Isozaki, il quale dimostra dunque di averlo
più lungo. Pelli dovrà farsene una ragione. Una domanda purtuttavia si fa
strada ficcante: serviva proprio questo grattacielo a sezione sottile, che ha
peraltro sminchiato il profilo architettonico mediolano, visto che ovunque tu
sia lui appare in tutta la sua banale forma rettangulea? È originale forse?
Nuovo? Azzardo: bello? O quantomeno dotato d’un nesso concettuale, per quanto
opinabile, che lo lega alla città di Milano, come il pinnacolo della Torre
Pelli vuol essere citazione delle guglie del Domm? La risposta è no, no, no e ancora
no, nulla di tutto questo è la Torre Isozaki. Che per rendere omaggio ai natali
del suo fine creatore, sarà da oggi ribattezzata, in modo più calzante, Soshito
Nakagata.