domenica 22 giugno 2014

Milano diventa un’altra cosa – Stazione Garibaldi, Torre Unicredit, piazza Gae Aulenti, nessi e connessi


Ordunque, avendo una storia a distanza, sto affilando come una lama la mia conoscenza delle stazioni ferroviarie milanesi. Vi avevo già detto qualcosa a proposito della Stazione Centrale, ma invero la stazione che frequento di più è quella di Porta Garibaldi. Nulla da dire in particolare sulla stazioncella, piccina e senz’altro meno dispersiva della Centrale; c’è chi infatti la preferisce per questo. Quello che è davvero degno d’attenzione – non solo per i milanès in fondo, ma anche per chi è interessato all’architettura d’oggidì e alle trasformazioni urbane – è l’intorno della stazione, il quartiere che, come da titolo, sta trasformando Milano in: un’altra cosa.
Il modo migliore per accorgersene è arrivarci in auto, in stazione, dal cimitero Monumentale. Oggi – domani potrebbe già essere, per l’appunto, un’altra cosa – questo distretto di città è un cantierone tortuoso e incasinato assai, roba che nel tratto di strada precedente potrebbe quasi strapparvi un bestemmione mentre siete alla guida, specie se, come me, al volante non siete esattamente degli sgamati.
Poi però vi avvicinate pian piano ai nuovi palazzoni, recumbenti su piazza Gae Aulenti: e anche il cuore indurito del guidatore incacchiato non può, non può non farsi rapire da ciò che gli si para davanti. Uno spettacolo irreale, che personalmente mi fa scoppiare a ridere (vabbè sì, questa è l’insania che c’è in me) forse come reazione di distensione dopo la concentrazione della guida. E allora rido, sì, me la rido di brutto, perché sono arrivata in stazione e ce l’ho fatta, e me la rido, scoppio a ridere e me la rido dentro alla grande perché guardo dal parabrezza la mia città e vedo cosa diventa, e me la rido, e penso che Milano in fondo è la mia sposa (cit.) ed è bello accorgersi di essere ancora innamorati persi del proprio coniuge, capace di darci ancora grandi soddisfazioni. 

Già, ma che diavolo si vede dal parabrezza?
Chiedo scusa, ho divagato, ora lo racconto cercando di recuperare la lucidità.
La prima visione è quella della Torre Unicredit, il grattacielo più alto d’Italia*, opera dell’italo-argentino César Pelli, circondato dai suoi più modesti colleghi. La Torre Unicredit è un complesso di tre grattacieli, che descrivono con le loro planimetrie un semicerchio, assecondando la forma circolare, volutamente classica, di piazza Gae Aulenti. 
Uh, il grattacielo, che novità! Piaccia o non piaccia però, costoro c’han maledettamente preso: a meno di due anni dalla realizzazione sta sul serio diventando il nuovo simbolo di Milano, col suo pinnacolo grafico che si vede anche dalla periferia della città, e pure dalle tangenziali, guglia in una città nota per le guglie. D’accordo, l’idea del grattacielo non è originale e direi pure vecchia (d’altra parte, porino, il buon Pelli vi ricordo è classe 1926, non proprio un giovanotto). E manco è originale l’avervi allocato una banca, l’Unicredit, su cui puoi contare finché non fallisce. Insomma, il solito arrogante saggio di finanzcapitalismo. Era meglio una onlus, un circolo arci, o un circolo della birra diamine, andava bene pure quello.
E invece no: tutta la zona di piazza Gae Aulenti sembra nata per il trastullo dei gommini del tergi (per conoscere il significato di questa espressione, citofonare Egidio ore pasti: ne è lui l’involontario coniatore). All’ingresso della Torre Unicredit, ad esempio, troneggia Red, declinazione commerciale del mondo delle già fichette librerie Feltrinelli prontamente adattata al contesto: pochi libri ma vacui, atmosfera da bistrot fintofrancese, e un cesso preceduto dalle parole di – oh! – Catherine Zeta-Jones, moglie del figlio di Spartacus, bella snappola lei per carità, ma citarne le massime in una libreria no, che ci spiega come il segreto di un buon matrimonio sia quello di avere un bagno a testa, uno per consorte. Bella frase, io non riuscirò manco a comprarmi un magazzino delle scope per risolvermi il problema della casa, raddoppiare il numero delle tazze del cesso è francamente l’ultima delle mie preoccupazioni. Ed è stato qui esattamente qui che, tra le visioni sconfortanti di radical gommini dall’aria annoiata dai loro agi, con sottobraccio Repubblica e Sole 24 Ore, che con dita untazzate di croissant sfogliano le pagine dei libri in esposizione, sovente umettandosi con la loro regal saliva il regal polpastrello, ho pensato che il se il buon Giangiacomo (Feltrinelli) avesse veduto, o anche solo immaginato tutto questo, sarebbe corso ad appendersi al traliccio sotto al quale trovò in altro modo la morte, cercandone a piene mani il fascio d’alta tensione.

Ma se descrivo tutto questo, non è per disgustarvi, lo giuro. Perché nonostante tutto a me questa piazza Gae Aulenti, così grigia nei suoi eleganti toni di grigio, piace. E obbiettivamente non si può dire che sia brutta o non riuscita, anzi. Ci si fa una gradevole passeggiata in mezzo, attraversando su di una passerella una fontana dall’acqua tremolante ai cui bordi corre un sedile per sostare (e anche per bere il caffè: fatevi furbi, portatevi un thermos, dei cioccolatini, mamma e papà e i vostri amici, e sarà festa senza aver foraggiato il Red là di fronte). Vista da lì, la guglia della torre Unicredit sembra un ago non che gratta, ma che punge il cielo.
Ma la sortita prosegue, tra le vetrine dei vari negozi, alcuni già aperti e altri che poi apriranno. Ma non sono queste le cose cui prestare attenzione. Moderatamente carina è l’idea degli ottoni, il massimo della minchiata simpatica, con in alto un suggestivo squarcio che inquadra sempre lui, il pinnacolone. Poi da qui passeggiando si vede il Bosco Verticale, progetto dello Studio Boeri consistente anch’esso di due grattacieli. Ma non fatevi ingannare dalle idee pseudodemocratiche di cui vorrebbe farsi latore: ‘più verde per tutti, più ossigeno alla città’; balle, non è verde cittadino, non è verde per passeggiare, leggere, giocare, darsi appuntamento. Se lo godranno i gomminoni del tergi che c’andranno ad abitare, insieme a cicale, cavallette, zanzare e grilli. Ma ricordino i gommini: per queste bestiole il passo dalla pianticella sul terrazzo alla vostra camera da letto sarà breve, molto breve.
Più bello il lato sulla destra di chi è arrivato alla piazza dalla Stazione Garibaldi, attraverso il sottopasso o le scale mobili coperte dalla tettoia. I palazzi, anche parecchio pregevoli e nuovi, tornano a misura (non affatto male la Corte Verde di Corso Como, di Cino Zucchi, cugina di largo Zanuso, progetto dello stesso studio e si vede): e la cosa migliore è la discesa verso corso Como, architettonicamente ben azzeccata e piacevole (anche qui comunque apriranno presto negozi luzzuosi). E girando ancora verso destra, la vera meraviglia: il giardino Anna Politkovskaja, in realtà una strisciolina di verde, ma così graziosa e defilata e così surreale nello spazio che si è ritagliata dietro a questi palazzoni lucidi e nuovi di pacca, che non può non commuovere, per le sue panchine, i cespugli, le roselline, i sentierini ed anche naturalmente per la buona persona a cui è intitolato.

Con questo si conclude il giro di Porta Nuova, nel complesso piacevole, dai. L’immagine che mi tengo è quella, arrivando in auto, dei palazzoni grigi dal profilo aguzzo che si stagliano nel grigio del cielo plumbeo della città: una sorta di gara tra sfumature, giusto interrotta dalle lucine rosse che bordeggiano per questioni di sicurezza i punti estremi degli edifici, immagine vagamente apocalittica. Anche le gru dei cantieri ancora aperti sembrano amalgamarsi nel paesaggio, simbolo concreto della città in trasformazione, della Milano che diventa, si diceva, un’altra cosa. Io le gru lascerei lì anche quando sarà tutto finito.    
Per il resto s’è già in parte detto: una banca a guardarci dall’alto verso il basso, cantieri a volte fermi perché le imprese sono candidamente insolventi, le mani in pasta di Ligresti.
Ecco perché tifo per le cavallette (già avvistata qualcuna in zona). E per i topi. Già, di topi qui ce ne sono parecchi, nel parcheggio davanti alla stazione, lato Tecnimont. Sfrecciano di qua e di là, si dicon cose e corrono via, ravanano nella spazzatura, fanno simpatiche scorribande. E anche questa è una cartolina di Milano: il grattacielo Unicredit con la sua algida cuspide e in basso la vivace comunità di ratti che saccheggia, in un trionfo d’anarchia e collettivismo, i cassonetti dell’immondizia. E io, appunto, tifo per i topi.







* EDIT – [12/2014]
Ebbene, la Torre Unicredit non è più l’edificio più alto d’Italia. L’illustre (?) primato è rimasto in Milano, conquistato da un grattacielo in zona vecchia fiera, opera d’un noto architetto nipponico, Arata Isozaki, il quale dimostra dunque di averlo più lungo. Pelli dovrà farsene una ragione. Una domanda purtuttavia si fa strada ficcante: serviva proprio questo grattacielo a sezione sottile, che ha peraltro sminchiato il profilo architettonico mediolano, visto che ovunque tu sia lui appare in tutta la sua banale forma rettangulea? È originale forse? Nuovo? Azzardo: bello? O quantomeno dotato d’un nesso concettuale, per quanto opinabile, che lo lega alla città di Milano, come il pinnacolo della Torre Pelli vuol essere citazione delle guglie del Domm? La risposta è no, no, no e ancora no, nulla di tutto questo è la Torre Isozaki. Che per rendere omaggio ai natali del suo fine creatore, sarà da oggi ribattezzata, in modo più calzante, Soshito Nakagata. 

lunedì 2 giugno 2014

L'antica, quieta e verde Guastalla


I giardini della Guastalla sono un altro luogo che rende bella Milano, e che ci consente di proseguire il nostro descubrimiento del sottostimato verde cittadino. Sicché bisogna anzitutto dire che questo parchetto fu il primo tra i giardini pubblici milanesi, il più antico, realizzato nel lontanissimo 1555, mentre insomma l’Europa cattolica era percorsa da quello che i sudditi di sua maestà il papa chiamavano morbo protestante. Chissà che faceva in quell’anno il buon Gert dal Pozzo, protagonista del romanzoneoneone Q, le cui vicende avventurose sono incuneate giusto giusto in quei decenni lì. Forse se ne stava già ad Istanbul. Ma se fosse passato a Milano nel suo lungo peregrinare avrebbe potuto riposare le ossa in questo silenzioso e delicato fazzoletto di verde, scavalcandone con facilità il cancello.
In origine il parco della Guastalla era il giardino privato d’un collegio di pie fanciulle, e mutua il suo nome dalla benefattrice che, rimasta vedova assai giovane, ne fu fondatrice ed ospite ella stessa. Solo in pieno Novecento il parco venne espropriato dal Comune e aperto alla cittadinanza, inaugurato nel 1939.

Il giardino della Guastalla come appare oggi è un tesoro nascosto da una cancellata. È incastonato a sorpresa tra le rettilinee delle strade adiacenti. Di speciale ha l’erba verde, d’un verde tenero, i sentieri sterrati, le panchine di legno e di pietra e l’atmosfera inattesa, inconfondibilmente quieta e ovattata, che solo i parchi in centro e a ridosso di corsie trafficate possono offrire.
Si scende una breve scalinata per entrarci: ed è già meraviglia. Allo sguardo si apre una peschiera, una spettacolare vascona rettangolare delimitata da una serrata balaustra di granito poroso e da una recinzione in ferro battuto, in una doppia, sensuale sequenza di angoli e curve. A primavera le siepi di rose canine che la circondano esplodono in macchie rosse. Risale al Seicento, conserva intatta tutta la sinuosità barocca e trovarsela davanti è gioia per gli occhi. Non te lo aspetti questo specchio d’acqua d’antica memoria, là in mezzo. Passeggiando lungo il percorso botanico si incontrano statue meravigliosamente aggredite dal muschio, che ha ricamato sui loro fianchi sottilissimi abiti verdi; e c’è pure un tempietto neoclassico, invero un po’ male in arnese oggidì, ma comunque pur sempre opera architettonica del buon Cagnola che, sapevatelo, fu il progettista dell’Arco della Pace.
Al parco della Guastalla ho trascorso parecchie domeniche di quando ero giovine, quasi una sbarba rispetto a ora. Le sue panchine sono anche state il teatro di mattacchione cene en plein air svoltesi nella dimensione numerica d’un quartetto d’amici che allora sembrava inseparabile… e invece. E invece abbiam perso un elemento per strada, ma poco male. La vita è come una marea che sommerge (quasi) tutto, e superate le delusioni e anche qualche incazzatura posso dire che, del quartetto che fu, è rimasto un terzetto superior, e accanto mi sono rimaste le persone migliori. Due persone speciali, dolcissime, generose, toccate dalla grazia di quei doni rari ed elevatissimi che sono ironia, intelligenza, e naturale voglia di condivisione. Mica le virtù teologali insomma. Eppoi al parco della Guastalla vi son successe varie altre cose molto importanti per me.

Se ci vai di pomeriggio ci trovi barboni sdraiati per il lungo sulle panchine, cani di ogni tipologia, padroni di cani di ogni tipologia, forzati della corsetta e irriducibili dell’informatica in mobilità. Anche persone immerse nel piacere: gente che legge o coppie di innamorati.  
La storia tra mi e il mi ragazzo si può dire sia incominciata qui, perché è qui che il cazzare idiota delle più belle amicizie si è trasformato nel meraviglioso, cazzare idiota tra due persone che capiscono di aver voglia di stare insieme. Una bella cornice per l’inizio di una storia, la Guastalla, ma non c’è stato alcun pilotato programma estetico in ciò (ma qualcuno crede davvero ch’io sia in grado di programmare qualcheduna cosa, mi dimando?): sul serio, è accaduto tutto in maniera perfettamente casuale. Seduti sull’erba, in un caldo giorno d’agosto che ha licenziato subito dopo un lievissima e tiepida pioggerella. Ed è quello che ricordo assai bene di quella giornata: noi due, l’erba verde, d’un verde tenero, vari cani a destra e a manca e a volte pure in rapido avvicinamento (giusto per smorzare il quadretto troppo romanticone eh), il giardino della Guastalla tutto intorno a noi e le sottili e rade gocce di pioggia finite a confondersi nell’acqua della vasca peschiera. Ed è stato il giorno dopo che ho ricevuto in regalo Q, dei Wu Ming, allora Luther Blissett. E penso che sì, nel 1555, prima di rimettersi in viaggio per abbandonare l’Europa, Gert avrebbe potuto fare sosta sotto un albero della Guastalla, e ho la presunzione di credere che, in questo antichissimo luogo della mia città, il suo sarebbe stato un quieto e fruttuoso riposo.