C’è una chiesa da svenire, a Milano, e se non lo sapevate ora lo sapete. È la chiesa di San Satiro, e si trova in posizione centralissima e comoda da raggiungere: è esattamente in via Torino, a due passi da piazza Duomo. E per fortuna sua è vagamente arretrata rispetto alla strada, protetta nel suo piccolo sagrato di pietra da un cancello, che la difende dal passeggio della gente, quei delinquenti (cit.), dedita allo sciopping e poco accorta nei confronti di questo inusitatissimo gioiello architettonico.
La
struttura e la storia di questo edificio sono entrambe complesse, ed entrambe
affascinanti.
Partiamo
dalla storia, di questa chiesa, il cui nome vero è Santa Maria presso San
Satiro. Perché ‘presso’? Perché la più antica fondazione di culto era dedicata
a proprio al santo Satiro, o divo Satyro, come si legge nell’iscrizione della
facciata, che altri non era che fratello di Ambrogio, virtuoso vescovo di Milàn
e supermegasanto delle chiese cattoliche. In effetti più che a Satiro, del
quale non si sa poi molto, la chiesa sembra voler essere un omaggio ad Ambrogio
stesso, e quindi alla sua genia.
Anyway,
in epoca rinascimentale all’antico sacello altomedievale (che ospita oggi un Compianto
su Cristo morto in terracotta, realizzato da Agostino de’ Fonduli) venne
integrata una struttura più massiccia, la chiesa di Santa Maria; ad
occuparsene, architettonicamente parlando, fu Donato Bramante, chiamato dal
duca Galeazzo Sforza ad esaltare il luogo in cui, si diceva, un quadro della
Vergine, colpito dal pugnale d’un vandalo, avrebbe sanguinato. Un luogo
miracoloso dunque, teca celebrativa per l’immagine prodigiosa. Questo era
incaricato Bramante di realizzare, e nel piccolo spazio a sua disposizione,
integrando con maestria il sacello di san Satiro e il campanile romanico, uno dei più antichi
della città, egli riuscì a creare un edificio altamente spettacolare,
avvincente da fuori (il retro, visto da via Mazzini, sembra quasi fiabesco) e
da dentro, con la sua elaborata e nobile sagrestia ottogonale, e, più in
generale, nell’articolazione degli spazi interni grazie a una trovata geniale
sapientemente e finemente realizzata; una roba da svenire, appunto.
Ora, se stessimo parlando d’una serie tivvù, io vi dovrei avvisare, come si fa sull’internet, che di seguito vi saranno degli spoiler: indi per cui, se della chiesa del divo Satyro non sapete nulla e siete intenzionati ad andarvi, io mica voglio rovinarvi la sorpresa, e lo svenimento; andateci senza aver letto le righe che seguono. Se invece la prospettiva d’un collasso vasovagale in un edificio ecclesiastico non è esattamente nelle vostre corde (anche perché magari siete dei loschi peccatori e magari pure dei bestemmiatori, vergogna!), e preferite essere avvertiti prima della ‘sorpresa’ da far girare la testa, potrete allora seguitar la lettura. Poi però non lamentatevi, io ho avvisato.
Ebbene, qual è la caratteristica che rende questa chiesa unica, strepitosamente unica architettonicamente parlando? La prospettiva. La prospettiva, sissignore. La prospettiva, termine che forse potrà esser riconnesso più all’area semantica della pittura, di quell’arte figurativa messa a punto acerbamente da Giotto e poi incarnata da Pier della Francesca, passando per l’ignoto autore de La città ideale, sino ad approdare alle conquiste pienamente mature e superbe di Raffaello Sanzio.
La
prospettiva, la profondità. La profondità anche là dove, come sulla tela
bidimensionale, non c’è spazio. Come nel caso della nostra chiesa di San Satiro.
L’altare della chiesa occupa uno spazio perfettamente illusionistico.
L’espediente architettonico di Bramante crea spazio anche dove non c’è. Grazie
a un gioco serrato di finte semicolonne in sequenza e alla magistrale
decorazione della volta, egli fa sembrare ampio, grande, profondo, uno spazio
di appena 97 centimetri. Meno di un metro. Che comunica invece l’aspetto
imponente, arioso e maestoso di un'abside molto più fonda. Ma Bramante spazio
per la creazione di un'abside siffatta, che potesse confarsi alla santità
dell’icona miracolosa ivi esposta, non ne aveva; per cui dovette inventarsi
qualcos’altro. Creare spazio là dove non ce ne è, un po’ come i pittori sulla
tela. Ma in questo caso la sfida non era una tela bianca, ma la realtà stessa:
creare la sensazione sublime e perfetta d’una profondità che latitava, per
assegnare all’edificio la monumentalità di cui era in cerca.
E
così fu realizzata un’illusione perfetta, di cui ci si accorge… solo dopo aver superato
la metà della chiesa. Ti sforzi di mettere a fuoco quello spazio grande che ti
sembra sempre più vicino. Lo vedi rientrare, scavarsi, infossarsi come
suggeriscono le pieghe e le scanalature architettoniche, ma al contempo vedi la
parete, piatta, del fondo, venire sempre più avanti. È qui che parte lo
svenimento. Due dati spaziali che non concordano. Che non coincidono. L’incapacità
di avere cognizione dello spazio, fisico, intorno a sé. La potenza
dell’illusionismo. La meraviglia d’un progetto così potente ed
eccelso: l’allargamento ottico dello spazio.
Questo
è il mio spoiler su Santa Maria presso San Satiro, perché scoprire tutto ciò
quando ci sei dentro, e non prima, lascia che si conservi intatto tutto lo
stupore meraviglioso, quasi barocco si potrebbe azzardare, che questo punto di
fuga illusionistico sprigiona.
A me è esattamente così che è andata: la vedo da fuori questa chiesa, ne varco il cancello e ci entro: e mi perdo nelle spennellate d’oro, nell’atmosfera rarefatta del giallo dorato in cui, oggi (prima i colori eran diversi), si galleggia entrando. E l’occhio è catturato, come se fosse un magnete ad attrarre, dal fondo della chiesa, dall’altare così lontano e maestoso e così vicino, tanto da raggiungerlo in pochi passi, con un senso di vertigine che induce a sbattere più volte le palpebre in cerca della verità spaziale.
La
chiesa di Santa Maria presso San Satiro è semplicemente straordinaria. È
esperienza del senso, è incredulità e splendido disorientamento; e in tutto
questo c’è la sua forza, la sua potenza di chiesa infinitamente piccola eppure
così grande.
Che
inesprimibile soddisfazione portarci qualcuno alla prima visita: è come
rivedere se stessi alla prima esplorazione, nello stupore della perdita dei
riferimenti spaziali, prima di trovarne di nuovi, ancora preda dello
sbalordimento. Se poi quel qualcuno è sensibile alla qualità artistica, ed è in
generale una persona di spirito, di emozione e di coinvolgimento, allora avrete
fatto centro: la chiesa del divo Satyro, da oltre seicento anni, parla e
sorprende in via preferenziale questa bella e preziosa categoria di persone.
Che non può non rimanere affascinata da questo brano della nostra città.