giovedì 28 maggio 2015

Voi, Milano e ciascuno di voi/Partecipante n° 3: Pinco

Carissimi voi tutti, ecco che quest’oggi torniamo a dedicarci al nostro coinvolgente giocone Voi, Milano e ciascuno di voi, anche colloquialmente detto Il giuoco delle 5 domande. Per questa terza, gloriosa ed emozionante puntata siamo andati a scoglionare una celebrity del bloggo: proprio lui, il Pinco unico commentatore (lo pago per farlo), il quale si rivela pertanto essere non uno sconosciuto, misterioso navigante intrigato dal mio sagace stile di scrittura (prego?) bensì un fidanzato pietoso, e uso ‘fidanzato’, termine che mi riesce francamente imbarazzante, proprio per accentuare il patetico della situazione.
Comunque Pinco io ti voglio proprio benone anzi di più, grazie mille per esserti prestato a tutto ciò!

Ma insomma, chi è poi questo Pinco?
Non è un milanese. I lettori attenti del bloggo (lettori?) sapranno già essere un romano. Ma proprio romano de Roma. Il fatto che si tratti d’un non-milanese fa sì che le sue risposte siano ancora più interessanti, proprio per capire cosa, della nostra città, colpisce chi è abituato ai fasti e alla grandiosità di una città sublime come la Capitale. Che potrà pensare un suo abitante, per di più grande conoscitore della sua città, di questa caccola grigia che prende il nome di Milano?
Ma non solo. Soppesare le sue risposte consente sì di capire come un romano ‘vede’ Milano, ma anche come un milanese presenta la propria città. La cosa si fa dunque doppiamente intrigante, andando a generare un gioco prismatico dalle mille sfaccettature, un poliedro dagli innumerevoli lati, perfetto insomma per chi, come me, non ha ancora capito come calcolare l’area di un triangolo equilatero.

Ma che altro dire su Pinco? Il poco, davvero poco che c'è da dire quando si parla del proprio compagno. Che poi è poco perché, semplicemente, è tutto.
È un ragazzo, un giovane uomo dolce, generoso, compagno. È la persona più distratta e più attenta che io conosca. Per realizzare i miei sogni è riuscito addirittura a far giungere da oltreoceano un quokka, tutto per me (di pezza, amici del wwf, nessun contrabbando illegale d’animali esotici, tranqui! – piuttosto preoccupatevi del fatto che una persona di 29 anni abbia come sogno quello di possedere un quokka di peluche). Accumulatore di monete nelle tasche, che spesso semina senza accorgersene per terra, negli insidiosi spazi tra i sedili della macchina, sotto al letto, dietro agli armadi. Bevitore di caffè (l'avevo detto che è il mio uomo!), dipendente da Evernote, lavoratore operoso,  meticoloso archivista: riuscirebbe a creare fogli di lavoro su qualsiasi argomento. Ve lo giuro.
È inoltre il mio personalissimo tour guide in Rome, città che nonostante la sua sconfinata grandezza e l’infinità di cose, luoghi, segreti che reca in sé, inizio meravigliosamente a conoscere. Ad averne cognizione, e solo grazie a lui. Superlettore di libri spesso dalla mole spaventosa, pasticcere sorprendente, persona curiosa, giocosa, buona. Ironica. Autoironica. Colta. E con la barba, aggiungerei, che non è un dettaglio da poco. Eppoi è lui che mi ha regalato Q, condannandomi a mesi e mesi di lettura senza capire 'na mazza del plot.

Insomma, non siete curiosi di conoscere le sue cinque risposte? Ecco quindi i luoghi più significativi e beddi della nostra città secondo Pinco!

1.
Il luogo preferito

Contrariamente a quanto crede l’interessato, questa grafia l'è propri caruccia!

Il luogo di Milano che preferisco è il Portello, con annessi e connessi. Lo so, lo so è un tempio del capitalismo, ma è anche il luogo che quando sono a Milano mi fa da casa, o almeno da salotto e da cucina. È inoltre il posto in cui il quartiere vive, s'incontra e dov’è che una città è vera se non nei luoghi in cui le vite che la compongono s'intersecano? E poi per essere quello che è, non è affatto male. Che dire poi del suo parco meraviglioso e "filosofico" in cui ho passato tanti bei momenti? Insomma, io al Portello ci sto come un topo nel formaggio.

2.
Il luogo del coeur
La risposta è semplice da trovare, ma non è semplice da esporre. Il luogo in questione non può che essere il parco della Guastalla. È il luogo che ha visto cambiare la mia vita perché li ho conosciuto veramente e mi sono legato definitivamente ad un'altra vita, meravigliosa, che mi ha accolto nella sua, e non saprei che altro dire perché qualsiasi cosa dica non sarà mai abbastanza per descrivere la gratitudine verso questo parco semplice, antico e galeotto.

3.
Il pezzo da novanta/1
Sarà banale, sarà il luogo più turistico di Milano ma il Duomo è il Duomo. Ogni volta che ne effettuo il periplo trovo nuovi dettagli e come potrebbe essere diversamente... sono infiniti. Infinite guglie, rosoni, statue, cariatidi, cose... insomma è un gran bel colpo d'occhio. Non so se lo porterei proprio davanti casa, un po' troppi piccioni e giapponesi, però abbastanza vicino da andarlo a vedere frequentemente per trovare un nuovo dettaglio, conscio che ne troverò sempre uno nuovo.

Il pezzo da novanta/2
Il luogo che più di tutti traslocherei nel mio quartiere è la Certosa di Garegnano per due ragioni. La prima è che è proprio bella; ma lasciando da parte questo giudizio estetico articolato e profondamente pregnante passiamo alla seconda ragione. È un luogo che si adatta bene ad una periferia, o meglio, lascia stupefatti trovare una simile bellezza in periferia (e infatti era candidabile anche per la domanda n°4) ma superato lo stupore è quasi naturale immaginarsela immersa nella luce di una bella domenica mattina incastonata nell'atmosfera del piccolo borgo, o piccola borgata nel mio caso. Insomma è un luogo che richiama il senso di comunità. E poi la sua magnifica conservazione, forse dovuta a un buon restauro, non so, la fa sembrare quasi moderna, pardon contemporanea, forse eterna.

4.
Il luogo più sbalorditivo
"Ma cosa... come... aspetta un momento ". Più o meno sono queste le parole che ho bofonchiato una volta messo, a tradimento,  di fronte a quella presa per il... a quel raggiro illusionistico- prospettico che è la finta abside del vero altare del Bramante nella chiesa di Santa Maria presso San Satiro. Insomma io che venivo da una città barocca sono rimasto stupito da questo gioiellino del rinascimento lombardo che anticipa di parecchio i lazzi architettonici del barocco.

5.
L’itinerario che suggerisci
Non ricordo i nomi delle strade e stradine che ho percorso, a dire il vero non ricordo nemmeno da dove sono partito, ma ricordo una bella passeggiata per arrivare all'Università degli Studi di Milano. La monumentalità della Ca' Granda mi ha molto stupito, al pari della sua bellezza. Un'istituzione accademica che tuttavia non ha nei suoi edifici un tono severo, ma l'accogliente armonie di forme rinascimentali. I suoi cortili devono essere qualcosa di magnifico, peccato che chi li percorre sarà probabilmente percorso dall'ansia da prestazione, poco propenso a godere di tanta bellezza. Inoltre davanti al cancello c'è un bel parchetto, con delle panchine, e anche lì ho passato dei bei momenti.

***

Dunque dunque, come volevasi dimostrare, la provenienza romana ha costituito una lente forte attraverso cui guardare la città di Milano. Innanzitutto, balza all’occhio la sensibilità per le forme rinascimentali (“Il senso di Pinco per il Rinascimento”, ahah), epoca di cui poca traccia stilistica si conserva in Roma, espunta dagli artifici barocchi architettati in gloria dei pontefici e delle loro famiglie, e realizzati, va detto, con scarsissimo senso della conservazione storica. Ecco quindi citati Santa Maria presso San Satiro (impagabile la sua espressione la prima volta che ce lo portai!) e la Certosa, le quali si beccano così due nominesciòn, da parte di Pinco e del mi babbo. E proprio parlando della bella Certosa di Garegnano, esce fori il termine borgata, che potrebbe essere considerato banalmente un sinonimo di quartiere, ma per i romani la borgata è un’altra cosa, un concetto ancora più forte, legato proprio al senso di comunità – che questa chiesa periferica sembra dunque ispirargli.
La passeggiata migliore è per Pinco quella attorno all’Università Statale (anche questo esempio egregio di rinascimentalità), evidentemente dimentico che la sua donna ha lì vanamente lasciato un rene, parecchi dobloni e a cui deve i suoi precoci capelli bianchi. Però fischia se la Cà Granda è bella. Ricordo anch’io quella passeggiata, e pure il passo di tango improvvisato nel chiostro. Del resto l’università serve a questo, a farci i scemi, mica, chessò, a darci esami.
E tornando alle chiese, il Dom; eh, non è facile essere indifferenti al suo fascino in effetti. E poi la Guastalla: il bloggo sigilla così questo doppio, prezioso ricordo, il mio e il suo, di alcuni momenti molto, molto emozionantelli.

Ma in ultimo: numideddeo, il Portello!
Ok, ora, ciò che potrebbe sembrare un fallimento della mia opera ciceroniana in Milano è invece una vittoria. E cercherò di dimostrarvelo con i miei consueti funambolismi dialettici ehehehe. Anzitutto, si tratta d’un luogo nuovo della città – che meriterebbe un post tutto per sé, e così sarà (vi ricordo comunque che già qui si parla del suo parco) – e che rappresenta forse davvero l’esempio più egregio di trasformazione urbana di Milano, città che è precipuamente, costituzionalmente cangiante. È vero, ci han fatto un centro commerciale… ma non solo. Eppoi prima c’era un rudere industriale. Per me è un luogo del cuore, anche questo, un luogo peraltro del mio quotidiano, e quindi non posso che essere felice e pure commossa se, oltre che mio, è divenuto un luogo anche suo. Anche di Pinco. Nonostante la sua lontananza, un luogo anche del suo ‘quotidiano’. Il suo preferito in Milano, addirittura. Un luogo nostro insomma… e di certo non è poco.

Pinco, grazie infinite per il tuo bellissimo contributo! E per molte altre cose…

Lettori del bloggo, fatevi avanti! Qui le domande e qui la sagomina da compilare, che aspettate? Noi non aspettiamo altro che poter scoprire i cinque punti cardinali milanesi del vostro cuore. Daje!

mercoledì 20 maggio 2015

Cinquantamila sfumature di verde: l’Orto Botanico di Brera


C’è un luogo di una romanticheria unica a Milano. È un luogo dove potrete preziosamente concedervi una piccola, magica passeggiata, in un fazzoletto di verde, verde di qualità, che vi farà dimenticare per un attimo di essere a Milano. E in pieno centro per giunta. Ma d’altra parte – e in queste pagine non ci stancheremo mai di ripeterlo (piuttosto sarete voi a rompervi la minchia con siffatte reiterazioni, ma vi ricordo che gli Antichi, gente che se ne intendeva, dicevano sempre: ripetita iuvant) – Milano è anche, e soprattutto, questa.
Milano è anche, e soprattutto, questa.
Milano è anche, e soprattutto, questa.
Milano è anche, e soprattutto, questa.
Milano è anche, e soprattutto, questa.
Milano è anche, e soprattutto, questa.
Ok può bastare. Procediamo.

Il sito magico e insolito di cui stiamo parlando è l’Orto Botanico, una delle cinque istituzioni che animano, occupano e riempiono di bellezza il distretto caldissimo di Brera: Pinacoteca, Accademia, Osservatorio Astronomico, Biblioteca Braidense (un altro luogo meraviglioso, di cui prima o poi diremo) e, appunto, l’Orto Botanico, con tutte le sue sorprese.

Si tratta anzitutto d’un giardino molto antico, costituitosi nel 1774 con una precisa finalità didattica e formativa, vero e proprio strumento ‘vivente’ utile all’insegnamento delle scienze botaniche per gli allievi del ginnasio di Brera, che allora, sotto la dominazione austriaca, era appunto un collegio, in origine gesuitico e pubblico poi, divenuto tale in seguito alla soppressione del potente ma avversato ordine religioso fondato da Ignazio di Loyola.
Durante l’amministrazione francese l’orto botanico mutò pelle come cambiò il gusto dominante, e da funzionale aula didattica all’aperto si trasformò consapevolmente in una ricca e piacevole passeggiata costellata da specie esotiche ornamentali, cosa che ne incrinò l’impiego meramente didattico. L’orto subì in seguito un periodo di vero e proprio abbandono, sino a risorgere, in tempi moderni, come istituzione dal doppio volto: museo botanico scrupolosamente catalogato, in uso all’Università degli Studi di Milano, e locus amoenus per chiunque decida di farvi approdo con l’obbiettivo di deliziare occhi e cuore alla vista della sua generosa tavolozza di verdi; raccogliendo così le due passate eredità, di strumento didattico nonché di sorprendente giardino, isola di pace nel cuore della città.

È proprio questa avvincente dicotomia ad informare l’Orto Botanico, e a costituire il carattere precipuo della sua bellezza, che lo rende, decisamente, non un giardino qualsiasi.
Una croccante ghiaia riveste i sentieri bordeggianti le aiuole, rettangolari, coltivate a piante aromatiche, cereali, fiori di tutti i colori e di tutte le forme, erbe officinali, arbusti e ortaggi attentamente classificati, ciascuno indicato da un cartellino su cui sono apposti il nome latino, derivato dalla nomenclatura binomiale del buon Linneo, la famiglia di appartenenza e, per noi dummies, il nome comune.
Potrete farvi stuzzicare dall’odore appetitoso del rosmarino (in termini olfattivi dire rosmarino è dire arrosto, non negatelo, drogati di Ariosto – e non mi riferisco al letterato ma all’insaporitore da cucina – dico a te sorella! uscirai da questa spirale, ce la puoi fare, vedrai!), da quello fresco della salvia, o da quello dolcissimo e delicato delle rose; potrete giocare a cogliere – ammesso che come me non siate dei mioponi – le mille sottilissime differenze tra le spighe di qualità differenti di grano, scoprendo la forma dell’avena, che certo solo mangiando kinder cereali non avreste mai potuto indovinare. Potrete commuovervi di fronte alla maestosità delle magnolie e alla nobile e ragguardevole età del ginkgo biloba, e, se ci capitate nel momento giusto dell’anno, potrete sorridere di come i papaveri giochino a invadere, con i loro delicatissimi ma tenaci fiori rossi, le aiuole destinate a tutt’altro… Ma si sa, del resto, che la casa è di chi la abita (cit.).

L’Orto Botanico offre insomma a ogni stagione uno spettacolo sempre nuovo, e assai prezioso per chi voglia, da totale profano, apprendere qualcosina in più sul multiforme e infinito mondo vegetale. Eppoi si possono fare degli ottimi incontri: seguire i saltelli d’un merlo (del resto Al cor gentil rempaira sempre amore, come appunto l’ausello in selva a la verdura), fare la conoscenza con lo spaventapasseri addetto a salvaguardare l’aiuola a ortaggi, apprezzare la frenetica attività delle formiche che incedono laboriose e indaffarate sui petali vellutati delle roselline, mentre voi siete lì a non fare un cazzo, e le state pure disturbando: non è bello stare a guardare chi lavora in effetti.
In più, potrete sedervi in mezzo al verde, o su alcune belle panchine di legno massiccio oppure sulle sedioline gialle che si fondono con grande poesia nel paesaggio circostante, creando spazi di sosta e contemplazione perfetti.
Le volte che sono stata all’Orto Botanico, approfittando di alcune fortunose estensioni dell’orario d’apertura e visita, altrimenti un po’ stitichello, ed è un peccato, sono veramente rimasta estasiata da questo ulteriore brano di città, che non fa altro che riconfermarmi quanto sappia essere bella Milano, e di quanti e quali colori possa tingersi. Passeggiandovi all’interno ho avuto davvero la sensazione di essere finita in un quadro, in un altrove misteriosamente slegato dal contesto – le vie del centro cittadino – che lo ospita. Un luogo della scienza e della natura, della ricerca di didattica ma anche della bellezza, la bellezza di quanto è sì bello ma anche buono, come lo sono cereali, verdura, aromi (abbiamo detto aromi, aromi veri eh, non l’Ariosto!).
Ed è proprio questo ad avermi insegnato l’Orto Botanico, negli sprazzi di seria lucidità (quale lucidità?) che il cazzare con i miei compagni di viaggio, o anche da sola, nella mia testa (che roba triste e terribile, lo so), mi concede: la bellezza delle cose buone. La bellezza delle aiuole di rosmarino. La bellezza delle sfumature delle qualità di salvia. E soprattutto, la bellezza, impagabile, delle spighe di frumento. Sì, proprio delle spighe di frumento. Di grano. Di quel cereale speciale e prezioso alla base della nostra alimentazione, quel ‘crescente pane’ celebrato da Parini, il mio abate Parino, in un’immagine d’altissima e condensata poesia. Parini che, peraltro, l’Orto Botanico doveva conoscerlo bene, avendo a Brera praticato la sua attività di insegnante.

All’Orto Botanico di Brera quindi, a Milano, nella mia città ricca di sorprese come neanche un uovo di Pasqua, nella vertiginosa quantità di colture stretta e raccolta armoniosamente in un giardino sì piccino, come se tutte le pianticelle si dessero manforte a vicenda, in un sodalizio bellissimo e commovente, ecco che si può trovare, oltre a mille, innumerevoli altre meraviglie: il pane. Il pane e anche le rose. Che è poi un ottimo modo per ripassare le cose fondamentali per la cui conquista dobbiamo sempre lottare.













giovedì 7 maggio 2015

RdP: Ed Expo fu

E finalmente, dopo giorni, mesi, anni anzi di febbrile attesa (ma n’dove?) l’Expo 2015 di Milano è stato inaugurato, l’Albero della Vita funziona, i rattoppi a quanto pare anche, nel senso fanno il loro dovere celando elegantemente l’incompiuto, e c’è stato pure il tempo per qualche baracconata tipo il pianoforte bianco in marmo del Bocellone nazionale, così tanto per non farci mancare nulla (e rendiamo grazie al colonnino morboso di Repubblica.it, lato destro dello schermo, che con tanta solerzia ci aggiorna su queste notizie fondamentali).
Ora, è purtuttavia innegabile che, dopo averne tanto parlato, dopo aver sfruculiato la minchia co ’sto cazzo di Expo, un po' di curiositas ci sia, specie in chi, come, me è animale curioso di suo.

L’Expo 2015 di Milano è ed è stato, iniziamo col dirlo, una lercissima sentina di cose da buttar via, da bruciare, da depennare. E anche di gente da metter al gabbio. Loschi personaggi chiamati a presiedere l’allestimento epocale, mafiosaggini come in ogni grande cantiere, un giro affaristico di cui manco una goccia giunge agli assetati, contratti di lavoro dubbi come dubbi sono del resto oggidì tutti i contratti di lavoro a “norma di legge”, di queste leggi, l’esibizione ipertrofica e autoreferenziale di un nuovo capitalismo ‘leggero’ (che è comunque un ossimoro), startappiano, una sorta di salone del mobile più fuorisalone dedicato non al mobile ma al cibo; il tutto con l’obbiettivo, alquanto astruso viste le premesse, di udite udite, salvare il pianeta e combattere la fame nel mondo. Booom! Suvvia, non ci crederebbe manco un tontolone, e infatti io non ci credo. Ma andiamo, la facevate una sagra se non del cibo dell'alimentazione internazionale e la cosa poteva pure passare, ma il nobile intento umanitario è proprio una presa pecculo.
A questo aggiungiamoci che, dopo l’inquietante balletto delle nomine del cda, tutto il baraccone dell’Expo è stato realizzato secondo un modus operandi che ricorda me quando alle superiori dovevo preparare i temibbili compitini in classe di musica (su un ostico testo del Conservatorio, il tutto per crudele uzzolo della prof, non essendo il nostro istituto né un liceo musicale né una scuola di musica): lunedì spensieratezza a palate e ozio a gogo, marte e merco cazzeggio allo stato puro, giove anche e venerdì – prima del sabato in cui era fissata l’insidiosa prova – spavento, disperazione cupissima, Grande Ansia, tremori, lacrime di coccodrillo e notte insonne et tachicardica a farsi gli occhi microscopici per recuperare il tempo perduto. Cose comiche, me ne rendo conto, ma son passati più di dieci anni, ero una sbarba (comunque temo che mi ricomporterei esattamente così de-eh…). Solo pochissimi mesi fa, infatti, il terreno ove ora sorge l’Expo e tutti i suoi allegri alambicchi era un vasto sterrato fangoso, spianato, tipico dei grandi cantieri. Dei grandi cantieri fermi. E questo chi ha percorso l’A8 lo ha veduto, eccome. Nelle ultime settimane l’affanoso recupero: praticamente la mia notte insonne tra il venerdì e il sabato. Operai che si spaccano la schiena (ehi mamma, hai visto che almeno qui non son stata volgare?) per salvare il salvabile e questo gigantesco, colossale luna park che pian piano prende forma. Emerge. Una lotta contro il tempo, tra padiglioni ancora da finire, camouflage (gesù!), e aree che saranno ultimate dopo l’inaugurazione. Tutto uguale insomma al mio traccheggiare prima della prova di musica, però non dimentichiamoci che quella era la mia incoscienza di diciassettenne, questo è un eventone internescional e per di più i vari presidenti & Co. si beccano un non malo stipendio. Io a diciassettanni non c’avevo ’na lira, e manco adesso. Nessuno mi pagava per preparare il compito di musica, tantomeno per farlo in tempo.

Insomma, ce ne è abbastanza per sentire fin qui l’odore di merda.
Eppure…
Eppure c’è qualcosa, nel profondo del mio quoricino, che mi fa guardare, nonostante tutto, all’Expo, con una certa benevolenza. Qualcosa che in fondo, ma proprio in fondo fondo eh, mi ha addirittura condotto alla decisione, negli ultimi giorni, di dotarmi del ticket (ebbene…) per entrare in questa immensa cittadella consacrata al cibo e alle colture di alcune culture e paesi del mondo. 
Posso ravvisare origine e senso di questa vaga affezione nell’affetto, grande, provato nello studiare per un esame, dato tempo fa, qualche accenno della storia delle esposizioni internazionali. Cosa sono state, cosa hanno significato in architettura (l’esame era proprio storia dell’architettura infatti), e come hanno inciso sulla definizione del paesaggio urbano configuratosi successivamente e non solo. Una storia di idee, magnifiche, avente per protagoniste la fantasia e la tecnica di uomini che sapevano guardare in lungo, più in là della loro epoca e forse ancora oltre.

La grande avventura delle Expo fu degnamente inaugurata nel 1851, con la Great Exhibition londinese, che affascinò il mondo, e continua ad affascinarlo, con l’idea fiabesca – eppure parecchio sostanziata architettonicamente – d’un palazzo di cristallo, quel Crystal Palace che conosciamo nel suo aspetto grazie a suggestivi disegni d’epoca, scatola di ferro e vetro trasparente, scintillante, scrigno magnifico per contenere proposte di modernità. Il rovinoso incendio che lo distrusse risparmiò solo i pescetti rossi della grande fontana-ninfeo che stupiva i visitatori all’ingresso dell’edificio, rinvenuti ancora vivi e guizzanti nella vasca. Una vita breve quella del Crystal Palace, ma un’esistenza sfolgorante. E un’idea architettonica, l’impiego del vetro e del ferro, eccellente: il suo ideatore e realizzatore, Joseph Paxton, altri non era che un giardiniere, assai pratico nella costruzione di serre: il principio era quello, in fondo. Facendo entrare la luce a pervadere gli spazi. Una meraviglia che deve aver stupito parecchio i contemporanei, e la cui immagine stupisce anche noi, a distanza d’un secolo emmezzo. Un’idea architettonica sopravvissuta alla realizzazione stessa che per prima ne rendeva testimonianza.
Altra Expo, Parigi, 1889, un secolo dopo la Rivoluzione Francese, il cui centenario l’Exposition Universelle doveva celebrare: Tour Eiffel. Basterebbe già solo dire questo. Invece è bello aggiungere che si trattava d’un manufatto che doveva mostrare al mondo l’utilizzo d’un materiale costruttivo ancora giovane, il ferro, spinto all’acme della sua usabilità. Un manufatto che poi, a Expo conclusa, doveva essere smontato. Smontato come invece, prima della manifestazione, era stato montato pezzo per pezzo. E invece eccola ancora lì, la Torre Eiffel, così chiamata dal nome dell’ingegnere, monsieur Gustave, che la progettò, elemento imprescindibile del paesaggio parigino e forse simbolo d’una nazione. Espressiva, grafica, moderna. Che segna un bel trapasso nella storia dell’architettura: non solo per l’impiego massivo del ferro, materiale evidentemente versatile e qui anche espressivo, ma anche per la preminenza che viene ora a conquistare la figura dell’ingegnere su quella dell’architetto nel definire – e firmare – un progetto architettonico. Ingegneria, gusto e, soprattutto, una visione
Londra e poi Parigi, E, anni dopo, Milano. Ma non la Milano del 2015, quella del 1906. Esposizione universale dedicata ai trasporti, per mostrare al mondo il prodigio del traforo del Sempione, rimasta per anni la più lunga galleria ferroviaria al mondo. Palloni aerostatici, una linea tranviaria sopraelevata che attraversava un pezzo di città (cioè, capito?), purtroppo poi smantellata, e un sacco di idee nuove, prototipi e cose destinate a lasciare il segno: il primo self service nel padiglione della Germania e il primo ristorante cinese nel padiglione della Cina. Fu il parco Sempione l’area designata ad ospitare l’Expo, unitamente all’area fiera che veniva da poco inaugurata. Ciò che rimane della prima esposizione universale meneghina sono alcune bellissime foto in b/n che ci mostrano un parco Sempione allestito a festa, alcune cartoline ricordo e, soprattutto, com’ebbi modo di scrivere già in questo post, lascito fortunoso e tangibile della manifestazione, il bellissimo Acquario Civico, imperdibile e sontuoso esempio di liberty italiano.

Ecco insomma, è con questo clima nel cuore, è pensando a tutte queste cose che si è acceso in me l’interesse positivo per questo eventone, che accade hic et nunc, ora e nella mia città (in realtà accade a Rho, come facevano notare i Vallanzaska anni fa, ma comunque). Mi aspetto – ed è con questo orizzonte d’attesa che ho acquistato i biglietti, sborsando euri assai per le mie miserande finanze – di potervi fare passeggiate straordinarie, di visitare cose e luoghi nuovi, di stupirmi davanti alla meraviglia di certi allestimenti che tecnica e sensibilità artistica hanno saputo approntare. Un luogo provvisorio, destinato a svanire così come è stato realizzato, ma capace, mi aspetto e spero, di essere in una qualche misura coinvolgente ed emozionante. Una grande mostra a cielo aperto, una fiera, un parco divertimenti, un luna park: fate voi come definirlo. Probabilmente l’Expo di Milano sarà ed è tutte queste cose, e in forza di questa ragione ho deciso di esserci. Folle ciclopiche permettendo: schiverò plotoni di happy tourists, gente che non è mai uscita di casa per vedere una mostra/un museo però va a vedere l’Expo, gente che non è mai venuta a Milano ma ci viene per vedere l’Expo, gente che farà ‘fotografie’ con l’iPad (vi prego questo no!), gente che userà il bastone per i selfie, e purtroppo non sulla propria testa. Ok, mi sta già passando un po’ l’entusiasmo ma lo farò, aspetto solo il momento in cui l’esposizione universale, per la seconda volta nella mia città, il tanto discusso Expo 2015 di Milano, schiuderà al mio sguardo ciò che mi aspetto di trovarvi, ovverosia tutte le sue prodigiose, avveniristiche e potenti bellezze.   


Ebbene sì, sono anche sorcia coop