E finalmente, dopo giorni, mesi, anni anzi di febbrile attesa (ma n’dove?) l’Expo 2015 di Milano è
stato inaugurato, l’Albero della Vita funziona, i rattoppi a quanto pare anche,
nel senso fanno il loro dovere celando elegantemente l’incompiuto, e c’è stato
pure il tempo per qualche baracconata tipo il pianoforte bianco in marmo del
Bocellone nazionale, così tanto per non farci mancare nulla (e rendiamo grazie
al colonnino morboso di Repubblica.it, lato destro dello schermo, che con tanta
solerzia ci aggiorna su queste notizie fondamentali).
Ora, è purtuttavia innegabile
che, dopo averne tanto parlato, dopo aver sfruculiato la minchia co ’sto cazzo
di Expo, un po' di curiositas ci sia, specie in chi, come, me è animale curioso
di suo.
L’Expo 2015 di Milano è ed è stato, iniziamo
col dirlo, una lercissima sentina di cose da buttar via, da bruciare, da
depennare. E anche di gente da metter al gabbio. Loschi personaggi chiamati a
presiedere l’allestimento epocale, mafiosaggini come in ogni grande cantiere, un
giro affaristico di cui manco una goccia giunge agli assetati, contratti di
lavoro dubbi come dubbi sono del resto oggidì tutti i contratti di lavoro a
“norma di legge”, di queste leggi, l’esibizione ipertrofica e autoreferenziale
di un nuovo capitalismo ‘leggero’
(che è comunque un ossimoro), startappiano,
una sorta di salone del mobile più fuorisalone dedicato non al mobile ma al
cibo; il tutto con l’obbiettivo, alquanto astruso viste le premesse, di udite
udite, salvare il pianeta e combattere la fame nel mondo. Booom! Suvvia, non ci
crederebbe manco un tontolone, e infatti io non ci credo. Ma andiamo, la
facevate una sagra se non del cibo dell'alimentazione internazionale e la cosa poteva pure passare, ma il
nobile intento umanitario è proprio una presa pecculo.
A questo aggiungiamoci che, dopo l’inquietante
balletto delle nomine del cda, tutto il baraccone dell’Expo è stato realizzato
secondo un modus operandi che ricorda me quando alle superiori dovevo preparare
i temibbili compitini in classe di musica (su un ostico testo del Conservatorio,
il tutto per crudele uzzolo della prof, non essendo il nostro istituto né un liceo
musicale né una scuola di musica): lunedì spensieratezza a palate e ozio a gogo,
marte e merco cazzeggio allo stato puro, giove anche e venerdì – prima del
sabato in cui era fissata l’insidiosa prova – spavento, disperazione cupissima,
Grande Ansia, tremori, lacrime di coccodrillo e notte insonne et tachicardica a
farsi gli occhi microscopici per recuperare il tempo perduto. Cose comiche, me
ne rendo conto, ma son passati più di dieci anni, ero una sbarba (comunque temo
che mi ricomporterei esattamente così de-eh…).
Solo pochissimi mesi fa, infatti, il terreno ove ora sorge l’Expo e tutti i
suoi allegri alambicchi era un vasto sterrato fangoso, spianato, tipico dei
grandi cantieri. Dei grandi cantieri fermi. E questo chi ha percorso l’A8 lo ha
veduto, eccome. Nelle ultime settimane l’affanoso recupero: praticamente la mia
notte insonne tra il venerdì e il sabato. Operai che si spaccano la schiena (ehi mamma, hai visto che almeno qui non son
stata volgare?) per salvare il salvabile e questo gigantesco, colossale luna
park che pian piano prende forma. Emerge. Una lotta contro il tempo, tra
padiglioni ancora da finire, camouflage (gesù!), e aree che saranno ultimate
dopo l’inaugurazione. Tutto uguale insomma al mio traccheggiare prima della
prova di musica, però non dimentichiamoci che quella era la mia incoscienza di
diciassettenne, questo è un eventone internescional
e per di più i vari presidenti & Co. si beccano un non malo stipendio. Io a
diciassettanni non c’avevo ’na lira, e manco adesso. Nessuno mi pagava per
preparare il compito di musica, tantomeno per farlo in tempo.
Insomma, ce ne è abbastanza per sentire fin qui
l’odore di merda.
Eppure…
Eppure c’è qualcosa, nel profondo del mio
quoricino, che mi fa guardare, nonostante tutto, all’Expo, con una certa
benevolenza. Qualcosa che in fondo, ma proprio in fondo fondo eh, mi ha addirittura
condotto alla decisione, negli ultimi giorni, di dotarmi del ticket (ebbene…) per
entrare in questa immensa cittadella consacrata al cibo e alle colture di
alcune culture e paesi del mondo.
Posso ravvisare origine e senso di questa vaga
affezione nell’affetto, grande, provato nello studiare per un esame, dato tempo
fa, qualche accenno della storia delle esposizioni internazionali. Cosa sono
state, cosa hanno significato in architettura (l’esame era proprio storia
dell’architettura infatti), e come hanno inciso sulla definizione del paesaggio
urbano configuratosi successivamente e non solo. Una storia di idee,
magnifiche, avente per protagoniste la fantasia e la tecnica di uomini che
sapevano guardare in lungo, più in là della loro epoca e forse ancora oltre.
La grande avventura delle Expo fu degnamente
inaugurata nel 1851, con la Great Exhibition londinese, che affascinò il mondo,
e continua ad affascinarlo, con l’idea fiabesca – eppure parecchio sostanziata
architettonicamente – d’un palazzo di cristallo, quel Crystal Palace che
conosciamo nel suo aspetto grazie a suggestivi disegni d’epoca, scatola di ferro
e vetro trasparente, scintillante, scrigno magnifico per contenere proposte di
modernità. Il rovinoso incendio che lo distrusse risparmiò solo i pescetti
rossi della grande fontana-ninfeo che stupiva i visitatori all’ingresso
dell’edificio, rinvenuti ancora vivi e guizzanti nella vasca. Una vita breve
quella del Crystal Palace, ma un’esistenza sfolgorante. E un’idea
architettonica, l’impiego del vetro e del ferro, eccellente: il suo ideatore e
realizzatore, Joseph Paxton, altri non era che un giardiniere, assai pratico
nella costruzione di serre: il principio era quello, in fondo. Facendo entrare
la luce a pervadere gli spazi. Una meraviglia che deve aver stupito parecchio i
contemporanei, e la cui immagine stupisce anche noi, a distanza d’un secolo
emmezzo. Un’idea architettonica sopravvissuta alla realizzazione stessa che per
prima ne rendeva testimonianza.
Altra Expo, Parigi, 1889, un secolo dopo la
Rivoluzione Francese, il cui centenario l’Exposition Universelle doveva
celebrare: Tour Eiffel. Basterebbe già solo dire questo. Invece è bello
aggiungere che si trattava d’un manufatto che doveva mostrare al mondo
l’utilizzo d’un materiale costruttivo ancora giovane, il ferro, spinto all’acme
della sua usabilità. Un manufatto che poi, a Expo conclusa, doveva essere
smontato. Smontato come invece, prima della manifestazione, era stato montato
pezzo per pezzo. E invece eccola ancora lì, la Torre Eiffel, così chiamata dal nome
dell’ingegnere, monsieur Gustave, che la progettò, elemento imprescindibile del
paesaggio parigino e forse simbolo d’una nazione. Espressiva, grafica, moderna.
Che segna un bel trapasso nella storia dell’architettura: non solo per l’impiego
massivo del ferro, materiale evidentemente versatile e qui anche espressivo, ma
anche per la preminenza che viene ora a conquistare la figura dell’ingegnere su
quella dell’architetto nel definire – e firmare – un progetto architettonico.
Ingegneria, gusto e, soprattutto, una visione.
Londra e poi Parigi, E, anni dopo, Milano. Ma
non la Milano del 2015, quella del 1906. Esposizione universale dedicata ai
trasporti, per mostrare al mondo il prodigio del traforo del Sempione, rimasta
per anni la più lunga galleria ferroviaria al mondo. Palloni aerostatici, una
linea tranviaria sopraelevata che attraversava un pezzo di città (cioè,
capito?), purtroppo poi smantellata, e un sacco di idee nuove, prototipi e cose
destinate a lasciare il segno: il primo self service nel padiglione della
Germania e il primo ristorante cinese nel padiglione della Cina. Fu il parco Sempione
l’area designata ad ospitare l’Expo, unitamente all’area fiera che veniva da
poco inaugurata. Ciò che rimane della prima esposizione universale meneghina
sono alcune bellissime foto in b/n che ci mostrano un parco Sempione allestito
a festa, alcune cartoline ricordo e, soprattutto, com’ebbi modo di scrivere già
in questo post, lascito fortunoso e tangibile della manifestazione, il
bellissimo Acquario Civico, imperdibile e sontuoso esempio di liberty italiano.
Ecco insomma, è con questo clima nel cuore, è
pensando a tutte queste cose che si è acceso in me l’interesse positivo per
questo eventone, che accade hic et nunc, ora e nella mia città (in realtà
accade a Rho, come facevano notare i Vallanzaska anni fa, ma comunque). Mi
aspetto – ed è con questo orizzonte d’attesa che ho acquistato i biglietti,
sborsando euri assai per le mie miserande finanze – di potervi fare passeggiate
straordinarie, di visitare cose e luoghi nuovi, di stupirmi davanti alla
meraviglia di certi allestimenti che tecnica e sensibilità artistica hanno
saputo approntare. Un luogo provvisorio, destinato a svanire così come è stato
realizzato, ma capace, mi aspetto e spero, di essere in una qualche misura
coinvolgente ed emozionante. Una grande mostra a cielo aperto, una fiera, un parco
divertimenti, un luna park: fate voi come definirlo. Probabilmente l’Expo di
Milano sarà ed è tutte queste cose, e in forza di questa ragione ho deciso di
esserci. Folle ciclopiche permettendo: schiverò plotoni di happy tourists,
gente che non è mai uscita di casa per vedere una mostra/un museo però va a
vedere l’Expo, gente che non è mai venuta a Milano ma ci viene per vedere
l’Expo, gente che farà ‘fotografie’ con
l’iPad (vi prego questo no!), gente
che userà il bastone per i selfie, e purtroppo non sulla propria testa. Ok, mi
sta già passando un po’ l’entusiasmo ma lo farò, aspetto solo il momento in cui
l’esposizione universale, per la seconda volta nella mia città, il tanto
discusso Expo 2015 di Milano, schiuderà al mio sguardo ciò che mi aspetto di
trovarvi, ovverosia tutte le sue prodigiose, avveniristiche e potenti bellezze.
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Ebbene sì, sono anche
sorcia coop
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