Dunque
dunque, anche quest’oggi, miei cari lettori, come per il parco di Villa
Scheibler da poco narrato, affrontiamo un brano milanese piuttosto decentrato, anche
se di periferia ben diversa rispetto a quella di Quarto Oggiaro si tratta. Ci
troviamo infatti quasi a ridosso di Sesto San Giovanni, in un’area della città
di Milano industriale ed ex industriale. Ancora operativi alcuni stabilimenti,
come quello di proprietà della famiglia dell’Emmona confindustriale, dismessi
altri, sovente andati incontro a riuso, vedi il Carroponte non distante (ma lì,
per una manciata di civici, si è già sconfinati nella cosiddetta Stalingrado
d’Italia). Anyway, dicevamo, sì, siamo decisamente in periferia, dove i tram non vanno avanti neanche più.
E difatti, se non sei macchinato, devi farti un bel tragittone a piedi prima di
raggiungere il luogo di cui stiamo per dire, anch’esso passato da una
destinazione industriale a una destinazione di segno culturale.
È
dell’Hangar Bicocca che oggidì ci
occuperemo signori, sito al numero 2 di via Chiese.
Come
il nome già dice, questo complesso dai soffitti smisuratamente alti e a momenti
non visivamente percepibili (come dite? quella è la mia miopia? po esse,
altroché. Anche la nanaggine influisce dite? pure, in effetti), era adoperato
per la costruzione di locomotive e anche di velivoli: uno spazio bello grosso,
dunque, del resto mica parliamo dei droni di Jeff Bezos. Un fabbricato a dir
poco gigantesco (provate voi a costruire degli aerei in un monolocale), che
negletta la sua funzione originaria ha trovato una nuova vocazione, artistica,
divenendo spazio espositivo agile e, in ragione della sua estensione, e orizzontale e verticale, altamente versatile nonché capace di ospitare
espressioni artistiche multiformi, originali, e, alla bisogna – mi si perdoni
la banalizzazione –, pure ingombranti.
Superato
un bel cancellozzo grigio, che già fa industrial,
si accede all’area dell’originario hangar, il cui ingresso è preceduto, e quasi
‘mascherato’, da un’opera d’arte di Fausto Melotti, intitolata Sequenza, che
con i suoi listoni di ferro costituisce già un assaggio del gigantismo che si
respirerà più oltre. Circondata da una vegetazione che per disposizione,
cromatismo e varietas partecipa al gioco ritmico dell’opera, la Sequenza sembra
quasi la tastiera d’un pianoforte dai tasti sì giustapposti, ma ora avanzati
ora arretrati, a suggerire chissà quali, nuove, impreviste melodie. Ma vista
così, nei toni di marrone delle sue superfici, tra le spighe ocra che la
circondano, pare quasi, per la disposizione dei suoi volumi, una
semplificazione rettangolare del Quarto stato pelliziano, che qui apparentemente
immobile avanza invece monumentale (orsù
abbiate pietas, sapete che m’è invalsa l’abitudine di piantare a caso dubbi nessi
artistici).
Sicché
– dopo aver disseminato qualche strùnzatella sull’incolpevole opera del buon
Melotti – seguitiamo pure a descrivere il nostro lento avvicinamento all’hangar:
aggiriamo dunque la grande scultura modulare, quasi una soglia che ci immette
nel mondo dell’arte, e apprestiamoci ad entrare nell’edificio vero e proprio,
che ci attende in fondo coi suoi mattoncini rossi martellinati, á la Turbinenfabrik AEG di Behrens.
Un
primo corpo del fabbricato, dalle dimensioni ancora umane, ospita i servizi:
guardaroba, video e cartacei dispensatori di generose informazioni circa le
mostre in programmazione, sale per le attività didattiche destinate a bambini e
regazzetti, e, di fronte, un bistrot un po’ fichetta (ma domeneddio, quale
‘bistrot’ non è già costituzionalmente fichetta?) per radical gommini – d’altra
parte il presidente della fondazione Hangar Bicocca, vi ricordo, è pur sempre
Tronchetti Provera (mentre il curatore, giusto per dare un guardo alle facce del
management artistico meneghino, è questo gnomo spilungone – non me ne voglia,
eppoi ci mancherebbe, io ho già detto che sono una nana con le lenti spesse) –;
radical gommini dicevamo che dopo aver parcheggiato la regal progenie negli
spazi antistanti, possono finalmente godersi il loro brunch.
Percorso
questo primo stanzone, si arriva ad un passaggio aperto, che immette in un altro
spazio. È un varco, un passaggio che tende a preparare al silenzio, da questo
momento in avanti percepito e anche ‘prodotto’: prodotto perché, di fatto, ciò
che si intravede induce al silenzio. Si tende a parlare a bassissima voce, dopo. Oppure, a non parlare affatto.
Percepito perché, entrati nel cuore vero dell’Hangar, con i suoi soffitti
altissimi, quasi un cielo nero, si entra davvero in un altro mondo. In un altro
universo. E l’unica cosa che si sente, ed è dato di sentire, è il rumore del
silenzio. Quel lievissimo, impercettibile brusio che si avverte quando tutto
intorno tace. (Eccomunque in realtà io e
il mi cognato ci faremmo partire pure la suite di Atom heart mother in questa
sala! minchiate a parte, è
francamente epica al punto giusto, cinematografica e apocalittica come quel che
si vedrà dopo.)
Ma
dopo queste notazioni uditive (alcuni delle quali pure discutibili, mi rendo
conto), è lo sguardo ad essere completamente e perfettamente rapito.
Ci
sono i Sette palazzi celesti dell’artista tedesco Anselm Kiefer, là dietro. Oltrepassato
quel varco, c’è un’opera potente, inesprimibile, che non si può dire, che non è
raccontabile, ma che va vista. Provata. Un’opera potente: questo è l’aggettivo.
Sette
presenze, sette torri (sembra un trailer
di Maccio!), sette strutture a modulo impilato che paiono così
meravigliosamente instabili eppure non lo sono, fisse, superbamente immote,
saldamente ancorate a un terreno di sabbia grigia recintato. Un modulo, una
casina di cemento sbozzato a base quadrata dalle pareti grigie ondulate,
ripetuto in verticale. E la struttura così ottenuta moltiplicata per sette,
quasi ad ottenere un isolato escheriano di condomini impossibili, inabitabili,
deserti, in cemento e ferro, dalle cui strutture escono disordinatamente i
nervi dell’armatura, a testimoniare un evento di distruzione, rovinoso ma non
letale. Che ha lasciato questi incredibili palazzi in piedi, per miracolo,
sconquassati eppure saldi nello loro solide macerie.
Un
evento rovinoso sì, ma, appunto, non letale. Ed è attorno a questa
‘sopravvivenza’ che ruota tutto il fascino di quest’opera. Macerie che
resistono, dopotutto. Macerie che
incrollabili resistono in piedi, e con cui dobbiamo fare i conti; non tutto è
andato distrutto, e le macerie non completamente macerie sono lì a sfidarci, a
imporci qualcosa, perché non possiamo ricostruirci sopra. Un evento esiziale
che non è riuscito a produrre una tabula rasa, non ha polverizzato l’esistente
ma ha lasciato un cumulo di rovine salde, ostinatamente vive. Presenti. A
ricordarci il danno subito, a continuare, di fatto, a farci guardare indietro e
a impedirci di guardare avanti come se niente fosse stato.
Anselm
Kiefer nacque nel 1945. Il seno del freddo suolo che lo accolse nella sua
venuta al mondo nutriva ancora una lucida e tagliata follia di massa, partoriva
e accudiva il progetto pianificato di uno sterminio di uomini. Una lacerazione
così profonda da non poter essere superata senza lasciare incisa una traccia
psichica profonda. Non solo delle vittime parliamo. Una ferita che dovrebbe
(dovrebbe) obbligare chi ne fu coinvolto a fare i conti con le macerie rimaste,
sventrate ma in piedi, memento di qualcosa che si vorrebbe invece – e sarebbe
più comodo – dimenticare.
Per
Kiefer i palazzi celesti, installazione site-specific ideata appositamente per
l’Hangar Bicocca di Milano, sono un modo, nei loro sette nomi rimandanti
all’ebraismo, di riflettere sul ruolo dell’artista tedesco dopo la seconda
guerra mondiale, e dopo gli esiti di quella follia d’odio piantata a fondo nel
ventre dell’Europa. Quantunque, occorre constatatare, la buona Germania, in
questo stringente momento storico, nel suo ruolo di capofila economico europeo
(ottenuto all’opinabile suono di mini job e Hartz 4) seguita a dare
dimostrazione d’una volontà di potenza (che è poi concetto per nulla estraneo –
benché mistificato – alla storia culturale tedesca, e tant’è) e di prevaricazione,
assumente la forma usuale delle civilissime società ‘avanzate’: quella sottile ma
ugualmente muscolare e strangolante del neoliberismo capitalista che impone
povertà a chi sta indietro. A chi non è produttivo. Ausmerzen, ancora. “Sopprimere chi rallenta la marcia”.
Prima i malati, poi gli storpi, gli omosessuali, gli zingari, gli ebrei. Oggi i
greci, e domani chissà, magari tocca proprio a noi, come ci ricorda una bella
poesiola di Brecht. E forse verrebbe quasi da smentirlo, il motto bello del buon
(e questa volta non c’è ironia in questo aggettivo) Arrigoni, il quale diceva:
restiamo umani. Ché forse dovremmo imparare prima a diventarlo.
Tutta
questa ampia, lunga digressione, per raccontare, per restituire malamente un
briciolo della maestosità di quest’opera grandiosa, perché io, signori miei, ci
vedo tutto questo (comunque già l’ho detto che son miope eh). Ma è evidente che
oltre a questo fascino ‘mentale’, anzi, congiunto ad esso, vi sia un fascino
estetico ineludibile, offerto dal taglio dello sguardo a questi sette palazzi
d’un altro mondo – che è poi forse il nostro passato, e addirittura il nostro
presente, e fors’anche il nostro futuro – nelle loro sfumature bluette e
mattone, tracciate sul cemento grezzo – materiale mai così espressivo – delle
loro superfici.
Ricordo
perfettamente la prima volta che ci andai. E in realtà, fo un bel coming-out, ciò
che mi condusse all’Hangar fu un’altra mostra, la deliziosa From here to ear
(v.15) di Céleste Boursier-Mougenot (che difatti solo un luogo come l’Hangar
Bicocca avrebbe potuto ospitare). Ma, bontà mia, da stupidella non mi aspettavo
ci fosse, superato quell’accesso, anche tutta questa roba, io che vi ero
approdata con l’animo leggero di chi vuol vedere uccellini cicciottelli suonare
delle chitarre elettriche. Sicché, non appena mi trovai davanti l’opera di
Kiefer… fu un boato mentale, esplosomi dentro e temo anche fuori,
cristallizzato nella mia mascella molto, molto stupita, e anche stìupida. Conto e spero, al buio, di non
aver fatto troppe figure daddemente, rimanendo così, a bocca aperta. E da quel
sabato mattina (ci tornai peraltro il giorno dopo) è stato sempre un riandarci,
con le persone del mio quore, conducendole all’esplorazione di questo cosmo
(bella e superbamente ipnotica, qui, anche Unidisplay di Carsten Nicolai), che
conferma più d’ogni altra cosa, più d’ogni altro luogo mediolano, la mia salda
convinzione che solo l’arte contemporanea possa, oggi, creare universi. Che è
una cosa molto preziosa, e molto potente.
Ed
è per questo che sono felice, irrimediabilmente felice, che i Sette Palazzi
Celesti di Anselm Kiefer, ideati e realizzati appositamente per lo spazio
smisurato dell’Hangar Bicocca, in via Chiese al numero 2, abbiano per casa la
mia casa.
Cioè
Milano.