venerdì 24 maggio 2019

È meglio una donna



Catalogo dei viventi/4

“Però allacciati la cintura” dico al ragazzino, 15-16 anni, accanto a me. Non ci conosciamo, ed è seduto nel sedile passeggero anteriore della mia macchina.
Riavvolgiamo il nastro. Cinque minuti prima mi preparavo a svoltare con la mia auto quando vedo un disperato correre in mezzo alla strada. Con l’aria o di un pazzo o di un ladruncolo o di uno che sta venendo inseguito e scappa.
Ovviamente come curvo il semaforo diventa rosso e mi costringe a fermarmi, mentre vedo la sagoma del corridore avvicinarsi sempre più. Per prudenza mi chiudo in auto. Sono le 23 passate, sono da sola e la strada è deserta. Nell’interminabile tempo del semaforo rosso il corridore mi raggiunge. Lo sapevo, porca puttana.
Eccolo, e infatti mi bussa sul finestrino. Porca di quella puttana di tua nonna, proprio a me.
Mi giro e lo guardo. È un ragazzino. Camicia a quadri con sotto una t-shirt. Jeans. La mano stringe un cellulare e degli auricolari. È agitato.
“Scusi! Scusi!” mi dice. “Può abbassare il vetro?” Pure questa, ragazzino di merda!
Eseguo con pochina voglia.
“Grazie!” risponde trafelato appena il finestrino scende, con il fiato corto per la corsa. “Mi scusi, mi sono perso, non riesco a capire dove sono. Lei sa dov’è la 14?” chiede velocissimo, parlando un italiano di chi è nato in Italia, nonostante la carnagione e i tratti tradiscano origini egiziane, o marocchine. O tunisine.
Passi il fatto che mi dia del lei - ormai sono un’anziana e la differenza di età rende il fatto ragionevole. Tra un po’ qualche ragazzino mi darà una mano ad attraversare la strada, sono pronta anche per quello.
“Dici il tram 14? Guarda che da qui non passa. Qui ci sono il 12 e il 19. Devi andare più avanti, la fermata è lì”
“Ah ok, è che sono sceso dal passante, ho il telefono scarico e devo aver sbagliato strada, sono andato dall’altra parte ed era tutto buio e mi sono spaventato” dice veloce con tono ancora trafelato.
“Ho visto che correvi”
“Eh... sì”
“Allora il tram 14 qui non lo prendi. Sali sul 19, lo incrocia avanti. Poi chiedi al conducente”
Sono vagamente in tensione, il semaforo a breve diventa verde, ma tanto non c’è nessuno in giro, siamo nel deserto dei tartari in questa sera milanese di fine luglio.
“È che devo tornare a casa, non so neanche che ore sono e non posso avvisare i miei. Ho fatto tardi e non sono molto pratico di qui, non è la mia zona. Poi li era tutto buio”
“...”
“Non è che mi può dare un passaggio lei?”
Questa domanda risuona nel mio cervello e io smetto all’istante di pensare. Tutto il resto è istinto.
“La prego!”
Un secondo.
Un secondo solo.
Quello spazio di tempo della lancetta di un orologio per spostarsi un secondo più in là.
Vedo la mia mano afferrare la borsa che ho sul sedile passeggero. Me la metto sulle gambe. Un secondo. Un secondo solo.
“Sali” gli dico senza guardarlo. “Dai sali” gli ridico aprendo la macchina.
Un secondo. Un secondo per pensare se puoi fidarti. Se puoi fidarti di un ragazzino di 16 anni che ti chiede un passaggio, di notte e in una periferia deserta.
Un secondo per fidarti solo dell’istinto: e il mio in quel momento mi ha detto: vai. Di sicuro, poi, quel che sarà sarà.

“Grazie!” dice riconoscente. Apre la portiera e si siede si fianco a me. A quel punto smetto di pensare e congetturare - che senso avrebbe adesso? Penso solo al momento.
“Però allacciati la cintura”
“Sì, mi scusi, grazie veramente tante” stringe tra le mani il suo cellulare, spento e con lo schermo rotto a ragnatela. Oltre agli auricolari annodati ha tra le mani anche un biglietto ferroviario.
“Allora, dov’è che ti posso portare? Alla fermata del 14? Dov’è che devi andare?”
“Sì, alla 14 va bene. Devo andare in via privata N.”
“Non la conosco. È in questa zona?”
“No”
“Vabè, allora io ti porto al 14. Poi tu sai in che direzione prenderlo?”
“Sì, penso di sì”
“Ma scusa, in che senso pensi di sì?”
“È che ci siamo trasferiti da poco, non conosco bene ancora...”
“Vabè, chiedi al conducente, lui lo saprà”
“Si...”
“Vuoi il mio cellulare per chiamare i tuoi?”
“No no va bene...”
“Ma scusa, mi spieghi cos’è successo? Come hai fatto ad arrivare qui? E a perderti?”
“Sono andato con degli amici in treno, a Treviglio. Siamo stati lì tutta la giornata ma non pensavamo che facevamo così tardi. Poi mi si è scaricato il cellulare e non potevo chiamare casa. Sono sceso dal treno mi ero fatto spiegare dove andare ma ho sbagliato lato, e lì era tutto buio”.
Il ragazzino mi sembra sinceramente terrorizzato e poco sgamato. Che devo fare, ormai l’ho tirato in auto. Devo solo fidarmi, posso solo fidarmi.
“Ma che ore sono adesso? Cerca con gli occhi il cruscotto dell’auto, che segna un orario sbagliato che dal cambio dell’ora non mi sono premunita di correggere. “Mezzanotte e mezzo??” Si spaventa.
“No, è sbagliato, sono le 23.30. Non funziona, in questa macchina non funziona quasi nulla” dico per impressionare una sua ipotetica vena da ladruncolo di auto o di borse, come a dire: vedi che sono povera ragazzino?
“Ah, ehhhh è un po’ tardi” guarda il cellulare passandoselo tra le mani e con un po’ di nervosismo.
“Ti aspettano a casa?”
“Sì, mia madre e mio padre. E ho una sorella più piccola”
“Che saranno incazzati vero? Perché non li hai avvisati”
“Ehhh ho paura di sì” risponde con l’aria di chi sa che lo aspetta un cazziatone epocale e forse anche qualche sberla.
“Ma cosa c’è di interessante da fare a Treviglio? Poi ‘sti amici, scusami, non potevano darti una mano se non sei della zona? E anche ‘sto cellulare, guarda che ci sono i caricabatterie portatili, se stai tutta la giornata fuori...”
E niente, è partito il cazziatone anche a me. Mi immagino suo padre e sua madre, con la tensione che si taglia a fette.
“Eh lo so... Me l’ero fatto spiegare dove andare, ma poi ho sbagliato tutto, mi sono spaventato, c’erano anche delle persone...”
“Infatti stavi correndo come un disperato. E pure in mezzo alla strada, che è anche pericoloso.” Seconda dose di cazziatone.
“Sì, per fortuna che poi è diventato rosso e ti sei fermata” dice passando al tu.
Sì, certo una gran fortuna ragazzino del cazzo.
“Poi ho visto che dentro l’auto c’era una donna... È meglio una donna, no?”
“Ehh caro mio, diciamo che dobbiamo fare a fidarci tutti e due” gli rispondo, con un’ironia che forse non capisce fino in fondo.
“Comunque grazie, grazie, mi hai salvato la vita” dice in maniera adolescenziale giungendo le mani a mo’ di ringraziamento.
“Dai niente, non preoccuparti. Allora ti porto alla fermata del 14”
“Sì... altrimenti non potresti portarmi a casa?”
Ah regazzì, mo stai iniziando a cacare il cazzo. Però lo vedo sinceramente disorientato.
“Eh ma io non ho capito dove abiti. Hai detto che non è in zona. Il 14 in che direzione lo devi prendere, Duomo o Cimitero Maggiore?”
Ci pensa un secondo. “Cimitero!” Gli si accende una lampadina. “Io devo andare in via Privata N.”
“E ho capito, ma io la tua via non la conosco.”
“Cosa c’è vicino?”
“La fermata della 14”
Il 14 cazzo, IL 14 cazzo, sto “la 14” inizia a mandarmi ai pazzi.
“Quindi se facciamo in auto tutte le fermate del 14 tu riesci a capire a quale altezza è casa tua?”
“Sì, penso di sì”
“Dai allora facciamo così”
“Grazie!” dice sempre più sciolto dall’emozione, la sua tensione si è allentata quasi del tutto. Rimane quella per le legnate che si prenderà stasera, ma non importa, se suo padre mi permettesse di partecipare alla sessione lo legnerei anch’io per tutta la sudazza che mi sta procurando.
“Vicino comunque c’è un supermercato”
“Mmm. Che supermercato è?
“Non me lo ricordo”
“È il Conad?”
“Eh non lo so”
“Ma c’è una chiesa vicino?”
“Mi sembra di sì”
“E una scuola? In via Pareto?”
“Sì, questa via l’ho sentita! È dietro casa mia!”
“Ecco, allora ho capito”
“Sì, io devo andare in via Privata N.”
Aridaje, t’ho detto che non la conosco, a regazzì, m’hai preso per tassinaro?
“Ho capito, ma non la conosco ‘sta via! Ma tu abitavi in un’altra zona di Milano?”
“Vivevamo a Cormano. Siamo qui da tre mesi”
“Ho capito”.
Metto la freccia per girare a sinistra quand’ecco che esplode:
“Ecco!! Qui devi andare!” si anima parecchio e mi indica la svolta a destra. “Qui dobbiamo andare, di qua è casa mia!”
La strada che mi indica è una delle vie più desolate della zona. Porta direttamente alle autostrade, è già desolata di giorno e di sera ancora di più. Insiste che devo andare per di là, in una strada di camion parcheggiati buia e dove non passa anima viva. Si è acceso e insiste.
E infatti ragazzino quella strada non la facciamo.
“No guarda, ormai ho messo la freccia e sto girando. Ti ci porto da un altro lato, non preoccuparti”
Adesso è lui impensierito. La solidarietà tra sconosciuti è un mix di affidamento e diffidenza reciproca. Io non voglio fare la strada deserta e buia che mi proponi con grande insistenza ma nemmeno tu vuoi fare quella che ti propongo io, che ha tutta l’aria di non essere la strada giusta e di farti allontanare da casa. È un delicato equilibrio che si nutre della dialettica tra bisogno manifesto e aiuto offerto, e la buona fede di ambedue le cose, bisogno da una parte e aiuto dall’altra, è costantemente passata al vaglio da ciascuno dei due estranei coinvolti, ognuno dalla sua posizione.
Poche altre svolte e alla fine il paesaggio urbano gli torna familiare.
“Eccoci, qui c’è casa mia! Li c’è il supermercato e la via Privata N. è lì!”
“Senti allora io mi fermerei. Sei ancora lontano?”
“No no è lì dentro, sono subito arrivato. Grazie, grazie, grazie ancora, mi hai salvato proprio, non so come ringraziarti”
“Dai tranquillo. Però la prossima volta stai più attento con orari, strade eh. Come ti chiami? Posso chiedertelo?”
È un nome che ho dimenticato quella stessa sera. Un nome del Paese dei suoi genitori.
“Dai allora qua la mano” lo invito con la mia mano a una stretta.
“Grazie eh, grazie ancora!” dice dandomi la mano e il classico finto bacio milanese sulle guance dei saluti.
“Vai tranquillo, buonanotte”
“Notte!” chiude la portiera e prende a correre velocissimo verso ‘sta via Privata N., che prima manco sapevo che esistesse.
Aspetto un attimo a partire. Tiro un respiro lungo. Rimetto la borsa dove stava prima. È quasi mezzanotte, la Milano di luglio è limpida e deserta e di acceso in questa via ci sono i lampioni, le quattro frecce della mia macchina e l’insegna del Conad. E le mie ghiandole sudoripare ascellari, in iperproduzione da sudazza tensiva finalmente allentata.
Lui è arrivato a casa, adesso posso tornare a casa anch’io.


Milano, luglio 2017

mercoledì 10 aprile 2019

Non dirlo a nessuno mi raccomando


Catalogo dei viventi/3

”Ma guarda che lo fanno tutti eh”
“Ehh... non metto in dubbio” 
“Lavori 20 ore su 24, fai dalle 7 del mattino alle 9 di sera e non fai in tempo ad arrivare a casa che ti richiamano dall’ospedale perché c’è o il perforato, o quello che fatto l’incidente, ritorni e ti rimetti in sala operatoria. Per questo lo fanno tutti” 
“Che ritmi”
“È così. Per questo ci si droga. Ma vabbè, non le droghe che pensi tu”
“Ma sì, posso immaginare”
“Anfetamine. Tutti i chirurghi d’urgenza lo fanno. Si drogano. Altrimenti non ce la fai. Dopo una giornata di quel tipo ti richiamano pure per urgenze a operare... figurati. Ci facevamo dei bei mix. Cose studiate eh. Tra di noi. La droga ti da una marcia in più. Anche come concentrazione. Sia fisicamente che come attenzione. Per stare in sala operatoria tutto quel tempo. Sennò non ce la fai, non reggi.”
“...”
“Peccato che quelle anfetamine ora non ci sono più. Han fatto una cagata a levarle. Mi toglievano anche la fame... Infatti non mangiavo un cazzo e quando mangiavo, alle due, tre di notte, che avevo un momento libero, mangiavo malissimo, cibo di merda tipo McDonald’s o quello che capitava... ed ero magrissima! Non mettevo su niente. Mai stata così magra come in quel periodo. Cazzo come stavo bene.”
“...”
“Oh mi raccomando non dirlo a nessuno”
“No ma dai scherzi, figurati se vado a raccontarlo in giro”. Sento il mio naso andare a sbattere contro il palazzo di fronte. Ma ho mantenuto lo spirito della promessa: non vociarlo in giro ma casomai narrarlo come storia, come fatto ascrivibile all’interesse che possono avere le vicende classificate come “di varia umanità”. Questa del resto è la Commedia Umana Milanese. Leggiamo libri su libri ma poi ci sfuggono le storie che abbiamo accanto. Scorrono via e non ne riconosciamo il potenziale narrativo. E si perdono nel gran brulicare della città. Figurati cosa mi impipa dire il tuo nome, o dove hai lavorato.
“Non perché sennò sai... D’altra parte se sei un chirurgo d’urgenza puoi solo fare così. Poi dipende molto da dove lavori. All’ospedale di M. eravamo sempre sotto organico, chirurghi d’urgenza eravamo pochi e quindi eravamo sempre noi in sala operatoria, a tutte le ore. Dovevano assumere e poi non assumevano mai”
“E ma così non va bene, non avrebbero dovuto. Comunque... che vita!”
“Non c’è nient’altro, non hai tempo per nient’altro. Fidanzato, figli, vacanze... niente di niente. Però bello. Mi manca.”
“Sì?”
“Cacchio sì, era un’altra roba. E poi alla fine il chirurgo d’urgenza impara a operare solo facendo così, non c’è niente da fare. Ci vogliono almeno 10 anni di sta vita per imparare davvero”
“Immagino”
“Però bello”
“Dai però anche adesso fai la chirurga”
“Sì ma operare d’urgenza è un’altra cosa. Adesso hai l’agenda programmata, fai quelle tre tiroidi, il by pass gastrico, le ernie... tutte cose che metti in calendario. Poi dove lavoro io non c’è nemmeno la chirurgia d’urgenza, è una clinica senza pronto soccorso”
“Però del resto ora la tua vita è cambiata, con un figlio...”
“Ma infatti non potrei più purtroppo. Però quella era la vita che mi piaceva fare”
“Cavolo sei una macchina da guerra!”
“Eh ma un chirurgo d’urgenza o è così o non ce la fa eh”
“Ma è vero che in sala operatoria c’è molto freddo? Che temperatura c’è? Per l’antisepsi, giusto?”
“Sì, esatto”
“Azz io creperei. Ma scusa ma tu non senti freddo, i medici non sentono freddo? Come vi vestite?”
“Macché, ma quale freddo. A parte che abbiamo il camice sterile che è pesante. Gli infermieri forse hanno freddo, loro si mettono un golfino addosso. Poi quando stai operando... altro che freddo! Sei lì che muori dal caldo”
“Ehh hai ragione... per una questione di concentrazione anche, no?”
“Sì ma non solo, hai il camice sterile che è pesante, la cuffia, la mascherina, i guanti... Alla fine sudi e crepi dal caldo. Ma non è che puoi spogliarti, o puoi toglierti qualcosa”
“Eh sì. Chiaro”
“In sala operatoria è così. Hai caldo? Te lo tieni. Hai il raffreddore? Mica ti puoi soffiare il naso. La pipì te la devi tenere”
“Madonna mia”
“Eh è così. Il chirurgo deve allenarsi a sopportare tutte queste cose. A me quando mi viene da soffiarmi il naso non è che puoi fermare tutto e dire ‘scusate interrompiamo tutto che mi soffio il naso’. Non puoi. Alla fine ti cola tutto sulla faccia, sulla bocca. Poi inizi a non respirare, nella mascherina diventa caldo e ti si appannano gli occhiali... ma non ci puoi far niente, devi continuare ad operare”
“Cavolo veramente è un addestramento militare”
“Lo è”
“Dai, pazzesco. Sono cose a cui le persone lontane da questo mondo non pensano”
“Ehh invece è così. Non puoi neanche andare in bagno. Io ad esempio in quel periodo lì quando avevo le mie cose, e i primi due giorni io devo cambiarmi ogni due ore, perché ho il flusso abbondante, mi mettevo assorbente interno, esterno, poi due pannoloni... E dopo cinque-sette ore di intervento non ti dico cosa trovavo”
“...”
“Eh sì. Bello però, quanto mi manca quella vita lì.”



Milano, gennaio 2019

venerdì 22 marzo 2019

Nato nel 2019


Catalogo dei viventi/2


“In reparto poi vedo queste ragazze, sui trent’anni, aspettano anche loro l’ecografia e sono tese, tese come una corda di violino. Ma io mi dico: bella, hai trent’anni, le chance ce le hai ancora. Se non va bene questa gravidanza ci puoi riprovare. Io a 48 anni se non prendo questo treno l’ho perso per sempre, eh”
In linea di massima ha ragione, però vorrei dire alla mia interlocutrice che magari anche qualcuna di quelle ragazze di trent’anni può avere un problema, un problema di salute, per cui aspetta con ansia il controllo. Ma decido di sintonizzarmi sulla *modalità empatia esclusiva per il mio interlocutore on*, e lascio perdere.
“Io a 48 anni o va bene questa o altrimenti niente”
“Eh hai ragione. Con tutta la fatica che hai fatto... speriamo dai”
“Sì. Ma sono stanca. Stanca. Sono al quarto mese e sono stanca. Angosciata. Non sento che si muove, non lo sento. Mi inquieta questa cosa di averlo dentro, mi inquieta. Vorrei che me lo togliessero e lo facessero crescere in un vaso di vetro, sul mio comodino, posso dirlo? Così lo vedo, vedo che sta bene e mi tranquillizzo.”
“Ma no dai! Sai che questa cosa c’è paro paro in un libro per ragazzi di tanto tempo fa? Non un romanzone eh, un libretto così, di narrativa, si chiamava ‘Nato nel 1999’. C’era il protagonista, Karl se non sbaglio, che nasceva in vitro. In una provettona, in cui degli scienziati avevano ricreato l’ambiente del ventre materno. Però lui alla fine era un po’ freddino eh. E siccome aveva qualche problemino emotivo poi, faceva una psicoterapia con ipnosi che lo riportava alla sua vita neonatale, e lui, che non sapeva niente del modo in cui era nato, estraeva solo come unico ricordo dei ‘visi che lo fissavano’.”
“Ma pensa tu”
“Sì, erano i visi degli scienziati che avevano partecipato all’esperimento. Per questo era un po’ freddino e anaffettivo. Vedi che ci vuole la pancia della mamma?” le sorrido.
Mi sorride anche lei. Guarda la panciona, già grossa, tesa su un vestito nero gigante di maglia e ci appoggia sopra le mani, una sotto e una sopra.
“Ma stai facendo foto della tua maternità? Il pancione che cresce...”
“No. Edoardo sarebbe anche un bravo fotografo... ma non ci pensa”
“Mannaggia... chiediglielo! Sarà bello per te e per il bimbo avere delle tue foto di questo periodo!”
“Hai ragione, non ci avevo pensato. Dovrò attrezzarmi”
“Ecco, brava.”
“A Edoardo non gliene frega niente. È solo noioso, fastidioso... È in piena adorazione dell’amante. Gli ho trovato una chat con un collega di ospedale sul cellulare in cui dice di lei: è una dea! “Con quel corpo e quello stacco di coscia”, testuale. Che poi è obesa eh questa qui, non sovrappeso, obesa eh. Di me invece ha scritto che sono intelligente ma sono la classica biondina slavata”
“...non so cosa dirti”
“Ma sì guarda. Si sta rivelando un pazzo totale... A volte arriva in piena notte dall’ospedale e mi dice che sono la donna della sua vita”
“Bè dai, state per avere un figlio insieme, accidenti”. Cerco di dissimulare il mio pensiero, lui è evidentemente un pazzo da cui fuggire a gambe levate e pure lei non scherza buondio. Però c’è un moccioso che deve nascere e io mi sento di voler essere incoraggiante.
“Sì, è vero. Non me ne fregava niente di avere un figlio, prima. Negli ultimi anni... non so cosa mi sia successo. Non ti dico che fatica. E prendi gli ormoni, fai gli esami... è anche una cosa economicamente non da tutti, io almeno lo potevo fare. Mi sono trovata questa donatrice di 23 anni... però il padre è lui. E spero di arrivare in fondo a sta gravidanza. Mi hanno già detto che dovrò fare il cerchiaggio probabilmente”
“Eh sì ho capito”
“L’utero di una donna di 48 anni praticamente si sta sfaldando, un cerchiaggio ci vorrà quando progrediremo nella gravidanza”
“Immagino. Dai, si farà... Non ci pensare adesso. Un passo alla volta”
“Sì giusto. La sua amante l’altro giorno gli ha detto: non riconoscere il bambino! O altrimenti speriamo che muoia”
“Ellamadonna! Ma no...”
“Sai che mi è venuto uno schifo? Mi veniva da piangere”
“Ma dove l’ha trovata questa? Che donna è? Cazzo meno male che è medico anche lei. Ma soprattutto scusami, ma anche lui... e te lo viene pure a dire adesso che sei in gravidanza?”
“Senza pietà”
“Guarda, ora cerca di concentrarti solo sulla tua gravidanza. Speriamo che gli esami vadano sempre tutti bene”
“Sì, speriamo. Che ansia”
“Lo capisco.”
“Mi manca il vino.”
Rido: “Sì eh?”
“Sì, tantissimo. Non ce la faccio più co 'sto crodino. Ieri eravamo al ristorante con Edoardo, abbiamo festeggiato l’eco che era andata bene...”
“Bravi”
“E lui mi metteva il bicchiere davanti! Che stronzo. Però lo faceva per ridere. Non è che sia sto gran bevitore”
“Eheh dai, tieni duro che tra un po’ ti rifarai!”
“Guarda non vedo l’ora. Ad Edoardo ieri ho anche fatto una foto. Eccolo qui. Qui ha anche un po’ l’espressione da bambino. Del resto è molto più giovane di me. Guarda che bello. Per me è bellissimo”
“Eh dai è giusto, è il tuo uomo! Deve essere bellissimo per te!”
“Si lo è secondo me. Ieri era tutto emozionato per l’ecografia”
“Dai, vedi? Magari quando nascerà il bambino sarà più centrato” rido.
“Speriamo. Lui è troppo altalenante. È anche un tipo geniale a volte”
“Ma infatti, io penso sia intelligente, ha un sacco di interessi”
“Sì, è così. Però ha l’amante. E me ne parla pure”
“Ehhh cosa ti devo dire. Almeno lui è geniale. Pensa quelle che si fanno tradire da uomini mediocri, manco geniali”
Scoppia a ridere. Le si muove tutta la pancia.
“Cacchio hai ragione!! Almeno lui è geniale, almeno questo” ride irrefrenabilmente.
“Ma sì, infatti, vedi il lato positivo no?”
Ridiamo.
Aggiunge: “Questa gravidanza sembra aver distrutto tutto. Anche il cane e il gatto sono impazziti, sono andati fuori di testa, sul serio. Si è rotta l’armonia. Io spero che le cose si aggiustino. Che Edoardo prenda le sue decisioni, qualunque siano, ma che le prenda, per carità di Dio.”
Guardo questa donna. Col pancione della gravidanza a 48 anni. In una relazione con un tizio che c’avrà anche un lavoro importante ma che mi sembra rassicurante quanto Norman Bates e che ha pure scelto come donatore per concepire un bambino inseminato artificialmente. E poi penso a lui, al bambino, che si troverà sbalzato in questo contesto…pure il gatto e il cane già lo odiano, cazz, peggio di così. 
Riguardo questa donna. La sua mi sembra un’impresa talmente squinternata da meritare del tifo, forse, alla fine. Ha un’ostinazione tale nel perseguire ciò che ha desiderato sopra ogni cosa che non mi sento di muovere critiche di sorta. In fondo non siamo nessuno per giudicare i desideri degli altri.
“Ma dai cara, sicuramente... state per avere un figlio insieme... è stato un bimbo cercato, voluto”
“Lo spero”
“Speriamo in bene dai. Stai tranquilla. Pensa a quando nascerà che felicità…” Io che faccio l’elogio della maternità buongesù, sono proprio la persona adeguata. Ma evidentemente riesco ad essere convincente. Lei sorride. Ottimo. Del resto era quello che volevo comunicarle per davvero. “Dai pensaci, sei al quarto mese… Tra un po’ il più sarà fatto. Pensa alla felicità che proverai quando lo avrai così piccino tra le braccia!”
Continua a sorridermi. Si rasserena per un istante.

Ma soprattutto, penso dentro di me, pensa al momento in cui potrai farti di nuovo un calice di rosso, ché dopo questa chiacchierata ne sento un po' il bisogno pure io.



Milano, ottobre 2018

domenica 3 marzo 2019

Magari domani capiremo


Catalogo dei viventi/1


“Guardi, credo sia da girare sa? Da qui, dalla manovella”
Il mio interlocutore mi guarda, ascolta e poi esegue silenzioso. Afferra la manovella con circospezione e inizia a farla girare delicatamente. Nell’opera, una vasca di vetro colma d’acqua, si scatena una tempesta di sabbia e parte una musica dolcissima e malinconica. Le casette immerse nell’acqua quasi scompaiono in mezzo alla bufera che si solleva. E quando la carica della manovella è finita, anche la musica finisce, la sabbia smette di agitarsi nell’acqua per ridepositarsi sul fondo, e il paesaggio che rimane è quello di un quartiere di palazzi tutti uguali, disabitati, silenziosi, avvolto in una quiete immobile.
Dico: “Non le pare che raffiguri uno scenario post nucleare? Le case sembrano abbandonate, con le luci ancora accese...”
Il mio interlocutore si volta verso di me per poi sprofondare in un rimuginio.
È un uomo, età tra 60-70 ed ha il pizzetto giallo. La sua barba, il suo pizzetto, è colorato di giallo. Non biondo, non tinto. Giallo. Tipo color uovo sbattuto. Giuro. Per il resto, in questo agosto milanese, sembra un uomo normale: ha pochi capelli bianchi, baffi bianchi, gli occhiali, una fronte solcata da rughe intelligenti, un bel po’ di pancia che tende la sua casacca kaki coi bottoni, pantaloni chiari di lino e una collana d’oro. E poi ha questo pizzetto giallo. Uno scherzo? Un attore reduce da uno spettacolo teatrale? Al sabato mattina? Non importa. Io comunque davanti a Organetto, l’opera di Alexander Brodsky al Pac, alla mostra Russkoe Bednoe, ho attaccato bottone. Lui non sapeva che bisognava girare la manovella, prima.
“Tipo Chernobyl dice?”
“Esatto. Guardi queste case, tutte uguali. In questo paesaggio desolante. E poi sono rimaste accese le luci, ma non sembra che ci sia vita, anzi. Sembra una città abbandonata”
“Ha ragione. Non mi sarebbe venuto in mente. Io ci sono stato a Chernobyl. Fu un bel traffico ottenere i visti e le autorizzazioni per andarci. Alla fine ce l’ho fatta”
“Davvero è stato a Chernobyl?”
“Sì. Tempo fa. Sa che la città è circondata da soldati? Ci sono soldati con le auto che presiedono tutti i punti di accesso alla città, dappertutto. Non devono fare entrare nessuno. E se arrivi lì ti controllano i documenti. Sono pieni di vodka. Hanno le bottiglie in macchina e bevono. Bevono in continuazione. Lo fanno perché così pensano di non ammalarsi di cancro. Lì è ancora tutto radioattivo”
“Ehh immagino. Fu una cosa grossa. Una tragedia totale”
“Sì, loro bevono la vodka e pensano che l’alcool gli salvi la tiroide. Il primo cancro che viene è quello”.
Il mio interlocutore con la barba gialla le spara grosse, anche se non se la tira. Dice di essere stato a Chernobyl. Potrebbe essere una balla, istintivamente però gli credo. Sto credendo a tutto quello che mi dice, stiamo comunicando con una nuda e semplice spontaneità tra esseri umani che non sembra lasciare spazio ai travestimenti delle menzogne. Che fatica, raccontare le bugie. Che fatica, inventarsi delle panzane. Qui invece sembra tutto molto semplice.
“Cavolo” dico io.
“Eh sì. È strana Chernobyl. È strano quel paesaggio. Vede, la natura si riprende tutto”.
“Ah sì? Cioè?”
“Praticamente la città è disabitata. Ma la natura è esplosa. Tra i palazzi, la natura è esplosa. Ma è una natura strana. Non è una natura normale. Ad esempio c’è questa vegetazione di un verde acceso, innaturale. Un verde che non ho mai visto.”
“Davvero?”
“Sì, un verde veleno! A me sono venute in mente le palline di veleno per topi, ha presente? Di quel verde innaturale. Ho fatto questo collegamento. C’è quest’erbetta di quel colore. Quando l’ho visto ci ho pensato subito al veleno. Dà l’idea proprio di tossico, di nocivo. Di qualcosa che fa male. Un colore artificiale, strano”
“Mamma mia. Pazzesco”
“Sì. Comunque ha ragione” e si volta a guardare l’opera, la vasca colma d’acqua con le sue casette tristi. “Sembra proprio una città post atomica. Non ci avevo pensato”
“Ma guardi, non lo so, mi è venuto in mente così.”
“Invece no, ha ragione. Bè, la ringrazio per questa la chiacchierata.”
“Ma grazie a lei”.
“Le auguro buon proseguimento” e nel dirlo fa un passo indietro mentre si congeda. Una mossa a metà tra il Tartuffo di Molière e un gesto di cavalleria d’altri tempi. Ci allontaniamo.
Riprendo a vagare per gli ambienti del Pac. Guardo le opere, assecondo lo sgorgare di pensieri e interpretazioni che posso dare a ciascuna.
“Signorina, mi scusi, non voglio importunarla”
È ancora lui.
“Ma scherza, figuriamoci. Mi dica”
“Vede, io avrei una domanda per lei. Lei è qui, sta vedendo questa mostra... cosa ne pensa? Cosa ne pensa di queste opere? Io in realtà sono un po’ smarrito. Faccio un po’ fatica a capire” dice con lo smarrimento intellettuale di chi ha troppe, troppe piste in testa da seguire, e si aspetta che l’artista faccia lo sforzo di disvelarti il senso dell’opera. Io così lo sono diventata poi. L’ermetismo eccessivo nell’arte contemporanea alla fine ti annoia. E finisci a chiederti se un senso ci sia davvero o meno. Ma allora ero giovane.
“Mah guardi, io devo ammettere di essere un po’ di bocca buona. Tutta l’arte mi incuriosisce. E poi l’arte e gli artisti sono avanti. Non mi aspetto di capire tutto. E soprattutto: probabilmente io non ci arrivo, ma chi verrà dopo di me magari invece capirà... in futuro intendo. Gli artisti sono avanti.”
“È giusto signorina, la ringrazio per la sua opinione. Ma onestamente quando di fronte a un’opera come questa vado a cercare il titolo per avere un indizio, un aggancio, una spia, e leggo “Senza titolo”... un po’ mi sento preso in giro”
Rido.
Gli dico ancora ridendo: “Ha ragione anche lei!”
Lui mi risponde: “Ma no sa, sarà un limite mio... però il dubbio mi viene!”
Sorridiamo.
“Ma infatti, è così, ha ragione. Oppure magari domani capiremo”
Rimaniamo in silenzio a guardare l’opera di arte russa contemporanea intitolata Senza titolo.
“Mi scusi ancora signorina, è stato un piacere parlare con lei, è stata così gentile e disponibile”
“Ma scherza, grazie a lei. Arrivederci”
“Arrivederci”
Di nuovo quel passo all’indietro per congedarsi e si allontana. Pantaloni chiari, casacca kaki. E il suo pizzetto giallo.
Magari domani capiremo. 



Milano, agosto 2011

giovedì 28 febbraio 2019

Per una Comédie humaine mediolana: catalogo dei viventi della città di Milano


In questo mio bloggo ho sempre più considerato i luoghi che le persone. Ho raccontato la toponomastica sentimentale della città in cui vivo: la presenza umana c’è sempre stata, nei miei pezzi, tra arguti custodi di museo, baristi, impiegate di banca, ingegneri di Shenzen, persone del cuore (partecipanti o meno al giuocone), forestieri menati per la città; presenza umana sì, ma solo in tracce. In fondo il core di questo scanzonato spazio sull'internet è stato il narrare la città attraverso i posti del mio cuore.

In questo rilancio a rilento del bloggo, annunziato mesi fa ma un tantino disattesello, voglio però dare più spazio alle persone. In tre abbondanti decenni di vita mediolana trascorsa all’ombra della Madunina ho raccolto più o meno brevi incontri del tutto fortuiti con persone e personaggi con cui si sono intrecciati dialoghi bizzarri e significativi, a volte profondi come pozzi altre volte perfettamente, splendidamente surreali. Brevi interviste con uomini fantasiosi, per parafrasare l'autore di Infinite (indi)jest. Ognuno di questi dialoghi mi ha lasciato qualcosa. È un carnet di fatti, opinioni, storie di vita, di lavoro, di corna, di salute e malattia che alla fine costituiscono il nucleo pulsante della città. È un catalogo di viventi, ognuno con la sua piccola storia un po’ strana, un po’ sbagliata, un po’ sopra le righe e imperfetta, e proprio per questo autentica, vera, in ultima istanza normale. Storie come tante ma mai identiche a nessun altra. Storie che in ogni loro sfumatura ci ricordano che il mondo là fuori è composito, che ciascuno di noi ha i propri segreti, i propri tic, le proprie passioni, le proprie speranze, i propri pensieri e a volte ha anche la voglia di raccontarli. Di cercare un dialogo, un ponte, un contatto. Ciascuno di noi ha la propria vita insomma. La fiumana che sale le scale in metropolitana al mattino è più varia di quanto possiamo immaginare vendendoci al di fuori muovere tutti allo stesso passo, tutti alla stessa ora, tutti nella stessa direzione, tutti vestiti col cappotto nero.

Posso dire che ogni dialogo che riporterò in questa nuova fiammante rubrica è vero e accaduto realmente, senza coloriture romanzesche. Altrimenti che gusto ci sarebbe? Lo giuro con la mano sul Manifesto del Partito Comunista, potete fidarvi diamine! Non so se sono io ad attirare certe confidenze, non saprei. O forse è il mio buon vecchio occhio miope che ancora sa individuare, nella folla monocolore di cui sopra, le persone più interessanti, più ganze, più più.
Una storia di Milano per persone, non solo per luoghi.
Un catalogo di viventi e di scambi umani, dispiegati in modo del tutto casuale tra le maglie di questa città, nei luoghi e nelle circostanze più disparate.
Benvenuti in questi nuovi squarci di verità della città di Milano, dei suoi abitanti, dell’amore che ho per questa città e per le perle che ogni giorno butta sul mio cammino sfidandomi ad accorgermene  e a raccoglierle. E a custodirle.