Catalogo dei viventi/1
“Guardi,
credo sia da girare sa? Da qui, dalla manovella”
Il mio
interlocutore mi guarda, ascolta e poi esegue silenzioso. Afferra la manovella
con circospezione e inizia a farla girare delicatamente. Nell’opera, una vasca
di vetro colma d’acqua, si scatena una tempesta di sabbia e parte una musica
dolcissima e malinconica. Le casette immerse nell’acqua quasi scompaiono in
mezzo alla bufera che si solleva. E quando la carica della manovella è finita,
anche la musica finisce, la sabbia smette di agitarsi nell’acqua per
ridepositarsi sul fondo, e il paesaggio che rimane è quello di un quartiere di
palazzi tutti uguali, disabitati, silenziosi, avvolto in una quiete immobile.
Dico: “Non
le pare che raffiguri uno scenario post nucleare? Le case sembrano abbandonate,
con le luci ancora accese...”
Il mio
interlocutore si volta verso di me per poi sprofondare in un rimuginio.
È un uomo,
età tra 60-70 ed ha il pizzetto giallo. La sua barba, il suo pizzetto, è
colorato di giallo. Non biondo, non tinto. Giallo. Tipo color uovo sbattuto.
Giuro. Per il resto, in questo agosto milanese, sembra un uomo normale: ha
pochi capelli bianchi, baffi bianchi, gli occhiali, una fronte solcata da rughe
intelligenti, un bel po’ di pancia che tende la sua casacca kaki coi
bottoni, pantaloni chiari di lino e una collana d’oro. E poi ha questo pizzetto
giallo. Uno scherzo? Un attore reduce da uno spettacolo teatrale? Al sabato
mattina? Non importa. Io comunque davanti a Organetto, l’opera di Alexander
Brodsky al Pac, alla mostra Russkoe Bednoe, ho attaccato bottone. Lui non
sapeva che bisognava girare la manovella, prima.
“Tipo
Chernobyl dice?”
“Esatto.
Guardi queste case, tutte uguali. In questo paesaggio desolante. E poi sono
rimaste accese le luci, ma non sembra che ci sia vita, anzi. Sembra una città
abbandonata”
“Ha
ragione. Non mi sarebbe venuto in mente. Io ci sono stato a Chernobyl. Fu un
bel traffico ottenere i visti e le autorizzazioni per andarci. Alla fine ce
l’ho fatta”
“Davvero è
stato a Chernobyl?”
“Sì. Tempo
fa. Sa che la città è circondata da soldati? Ci sono soldati con le auto che
presiedono tutti i punti di accesso alla città, dappertutto. Non devono fare
entrare nessuno. E se arrivi lì ti controllano i documenti. Sono pieni di
vodka. Hanno le bottiglie in macchina e bevono. Bevono in continuazione. Lo
fanno perché così pensano di non ammalarsi di cancro. Lì è ancora tutto
radioattivo”
“Ehh
immagino. Fu una cosa grossa. Una tragedia totale”
“Sì, loro
bevono la vodka e pensano che l’alcool gli salvi la tiroide. Il primo cancro
che viene è quello”.
Il mio
interlocutore con la barba gialla le spara grosse, anche se non se la tira.
Dice di essere stato a Chernobyl. Potrebbe essere una balla, istintivamente
però gli credo. Sto credendo a tutto quello che mi dice, stiamo comunicando con
una nuda e semplice spontaneità tra esseri umani che non sembra lasciare spazio
ai travestimenti delle menzogne. Che fatica, raccontare le bugie. Che fatica,
inventarsi delle panzane. Qui invece sembra tutto molto semplice.
“Cavolo”
dico io.
“Eh sì. È
strana Chernobyl. È strano quel paesaggio. Vede, la natura si riprende tutto”.
“Ah sì?
Cioè?”
“Praticamente
la città è disabitata. Ma la natura è esplosa. Tra i palazzi, la natura è
esplosa. Ma è una natura strana. Non è una natura normale. Ad esempio c’è
questa vegetazione di un verde acceso, innaturale. Un verde che non ho mai
visto.”
“Davvero?”
“Sì, un
verde veleno! A me sono venute in mente le palline di veleno per topi, ha
presente? Di quel verde innaturale. Ho fatto questo collegamento. C’è
quest’erbetta di quel colore. Quando l’ho visto ci ho pensato subito al veleno.
Dà l’idea proprio di tossico, di nocivo. Di qualcosa che fa male. Un colore
artificiale, strano”
“Mamma
mia. Pazzesco”
“Sì.
Comunque ha ragione” e si volta a guardare l’opera, la vasca colma d’acqua con
le sue casette tristi. “Sembra proprio una città post atomica. Non ci avevo
pensato”
“Ma
guardi, non lo so, mi è venuto in mente così.”
“Invece
no, ha ragione. Bè, la ringrazio per questa la chiacchierata.”
“Ma grazie
a lei”.
“Le auguro
buon proseguimento” e nel dirlo fa un passo indietro mentre si congeda. Una
mossa a metà tra il Tartuffo di Molière e un gesto di cavalleria d’altri tempi.
Ci allontaniamo.
Riprendo a
vagare per gli ambienti del Pac. Guardo le opere, assecondo lo sgorgare di
pensieri e interpretazioni che posso dare a ciascuna.
“Signorina,
mi scusi, non voglio importunarla”
È ancora
lui.
“Ma
scherza, figuriamoci. Mi dica”
“Vede, io
avrei una domanda per lei. Lei è qui, sta vedendo questa mostra... cosa ne
pensa? Cosa ne pensa di queste opere? Io in realtà sono un po’ smarrito. Faccio
un po’ fatica a capire” dice con lo smarrimento intellettuale di chi ha troppe,
troppe piste in testa da seguire, e si aspetta che l’artista faccia lo sforzo
di disvelarti il senso dell’opera. Io così lo sono diventata poi. L’ermetismo
eccessivo nell’arte contemporanea alla fine ti annoia. E finisci a chiederti se
un senso ci sia davvero o meno. Ma allora ero giovane.
“Mah
guardi, io devo ammettere di essere un po’ di bocca buona. Tutta l’arte mi
incuriosisce. E poi l’arte e gli artisti sono avanti. Non mi aspetto di capire
tutto. E soprattutto: probabilmente io non ci arrivo, ma chi verrà dopo di me
magari invece capirà... in futuro intendo. Gli artisti sono avanti.”
“È giusto
signorina, la ringrazio per la sua opinione. Ma onestamente quando di fronte a
un’opera come questa vado a cercare il titolo per avere un indizio, un
aggancio, una spia, e leggo “Senza titolo”... un po’ mi sento preso in giro”
Rido.
Gli dico
ancora ridendo: “Ha ragione anche lei!”
Lui mi
risponde: “Ma no sa, sarà un limite mio... però il dubbio mi viene!”
Sorridiamo.
“Ma
infatti, è così, ha ragione. Oppure magari domani capiremo”
Rimaniamo
in silenzio a guardare l’opera di arte russa contemporanea intitolata Senza
titolo.
“Mi scusi
ancora signorina, è stato un piacere parlare con lei, è stata così gentile e
disponibile”
“Ma
scherza, grazie a lei. Arrivederci”
“Arrivederci”
Di nuovo
quel passo all’indietro per congedarsi e si allontana. Pantaloni chiari,
casacca kaki. E il suo pizzetto giallo.
Magari
domani capiremo.
Milano, agosto 2011
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