45°27'53.5"N 9°11'01.2"E
Dunque, coloro i quali sono
ormai affezionati lettori di questo bloggo (cioè io e il mio cane) e sono
quindi entrati nell’ottica, enunciata dal titolo, del racconto di quella Milano
che, al contrario, esprime verità, rimarranno sorpresi nell’apprendere quale
sarà il tema di questo post. Ciò di cui stiamo per parlare non è in effetti
quanto ci si sarebbe aspettati di trovare in questo bloggo, tra le piccole
grandi perle di questa città tanto care al quoricino di bugnato.
E questo perché, miei
fedeli, stiamo per parlare, ebbene sì, di piazza Affari e del palazzo della
Borsa di Milano. Booom! Non ve
l’aspettavate, vero? C’avete pure ragione, ma nelle righe che seguiranno vi
appariranno più chiare le ragioni per cui ho deciso di narrare questo luogo (e
comunque io non ho nessun cane).
Ma andiamo con ordine.
Piazza Affari, come è usualmente, giornalisticamente appellata, non si chiama
così in realtà. Il toponimo esatto, riferito certo non alle attività borsistiche
ma alla sede fisica ove esse avvengono, scritto nero su bianco sulla lastra di
marmo leggibile in loco, è piazza degli
Affari; con quella preposizione articolata che, bella serafica, ci racconta
come in questo luogo si ‘facciano affari’. O meglio, più esatto, come qualcuno faccia affari. E mai come ora,
visto che son questi gli anni in cui il neoliberismo ha vestito il capitale
d’un volto finanziario, facendo della borsa – e non delle fabbriche, il che è
ancora più inquietante – il suo laboratorio produttivo – ammesso che per
l’appunto, in questo decennio di delocalizzazioni prima e desertificazione
industriale poi, sia ancora lecito, parlando di economia, adoperare la
definizione di ‘produttivo’. Insomma, una di quelle borse che si rassicurano
nel saperci più poveri, reagendo a notizie tragiche come licenziamenti, tagli
di salari e austerità con rialzi d’eccitazione perversa. Insomma, c’è parecchio
di spaventoso in tutto ciò.
Ora, viste le debite
premesse, diciamo la verità: per qual motivo pellegrinare verso piazza Affari, recandosi
al cospetto del Palazzo della Borsa Italiana, anche detto Palazzo Mezzanotte
dal nome dell’architetto che, nel 1931, lo progettò, e per di più menandovi in
visita pure dei forestieri, come ho avuto l’onore di fare? Noi anagraficamente
adulti (ma solo anagraficamente) che non abbiamo ancora superato la fase
escrementizia, ci si va, ammettiamolo, solo per vedere il tanto discusso ditone
medio, la scultura intitolata, assai ironicamente, L.O.V.E. Quanto ci piace il
ditone di Maurizio Cattelan. Che sarà anche un furbastro, però è un furbastro molto simpatico. Sicché ci si va, in piazza degli Affari, per
vedere il ditone che la Borsa ci pianta in quer posto. Che poi a guardarlo non
è che la mano proprio alza il medio, gli è che ha le altre dita mozze; come a dire
no ecco vedi, noi non vorremmo sfruttarvi,
ridurvi alla fame e nel contempo arricchirci, ma vedi, non ci possiamo fare
niente, è andata così, ma ti giuro che io non volevo, questa Mercedes, credimi
io non la volevo. Insomma, il medio media
tra noi e loro. Us and them. Come diceva lo zio Roger. Loro, noi e il medio in mezzo, in un messaggio
che appare perfettamente intelligibile. Benché grossa, non è decisamente una mano
che ci darà una mano questa. È una
mano che dà tutt'altra idea, e appare pronta e capace, nel suo gigantismo, a prevaricare, e uso il termine ‘prevaricare’ giusto per non esser
volgare. E pensate, le basta solo un dito! Insomma, qua il medium (è proprio il caso di dirlo) è esattamente il messaggio, per
citare il sociologo avente il nome d’un amplificatore e per cognome McLuhan.
Per cui perché non andarci,
via, sono pure ammessi i selfie di gruppo col medio alzato (ma senza bastone,
vi prego: andiamo suvvia, l’umanità ha compiuto la sua strepitosa evoluzione e
noi la buttiamo nel cesso con questa prolunga per scemi?), buontemponi che non
siete altro, e del resto l’ho fatto pure io, ma mica con quattro amici zozzoni,
bensì con la mia dolce famigliola (benché a onor delle cronache la mia composta
mammina si sia astenuta dal gestaccio). Ora, quale momento migliore della
giornata per darsi a queste buffonerie? Ecco, io sconsiglierei di raggiungere
piazza degli Affari di giorno, sortita che si rivelerebbe un po’ amara e pure poco
entusiasmante, vista la quota di piantoni e di gommini del tergi regimental
vomitati fuori dal palazzo della Borsa, con le loro gambine sottili da
cavallette. Avete fatto caso che questi personaggi son sempre alti e stecchi?
Ma di sera è tutta un'altra
cosa. Il suggerimento è quello di arrivare da via San Maurilio, sfidando le
asperità del pavè. Per vedere schiudersi allo sguardo una prima, parziale
visione della piazza, inquadrata suggestivamente tra gli archi dell’edificio di
fronte a Palazzo Mezzanotte, che creano quasi, nella luce della sera, uno
scenario metafisico. E passo dopo passo, nell’inconfondibile luce calda gialla della
notte milanese, ecco schiarirsi e definirsi le linee, quelle decò del Palazzo
della Borsa (benché montate su un impianto di neoclassicismo semplificato che
fa subito ventennio), tra semicolonne, fregi, le statue imponenti e massicce e
naturalmente il ditone di Cattelan, che conserva anche in ore tarde il suo stupefacente
biancore marmoreo, con le belle vene che lo attraversano, notazione anatomica
esatta per un’opera che, in macro, evoca formalmente una rinascimentalità
toscana, e non solo per l’impiego del marmo carrarese.
E quindi eccola la piazza:
sgombra, vuota, deserta, coi piantoni che ci saranno pure sottoforma di occhi
meccanici ma che almeno non si vedono, muta nelle architetture che la
delimitano, e che offrono le loro facciate immobili allo sguardo e alla
meraviglia dell’osservatore. Già, meraviglia, anche qui. Anche qui, anche se si
è in piazza degli Affari e c’è puzza di merda, ma la bellezza malinconica di
questo posto, che può essere bello solo di notte e mai di giorno, nella salubre
pausa notturna dal viavai dei loschi personaggi che se ne appropriano, appare
nitida, irrevocabile, insindacabile.
Ma la visione davvero forte
cui è dato di assistere di notte in
questo pezzo di città consacrato agli ‘affari’, affari sempre di qualcun altro,
è la presenza, consuetudinaria e stanziale, di barboni. Sì, barboni. Senzacasa,
clochard, chiamiamoli come ci pare. Down and out, it can't be helped but there's a lot of it about. Barboni, persone che vivono in strada. E
che scelgono questo posto per la loro notte. Per dormire. Per vivere, per
campare sotto alla luna. Come se s’affrontassero, nello spazio di cento metri,
i due poli parossistici d’un sistema che ci impone un prezzo altissimo da
pagare. Quello del finanzcapitalismo, la finanza liquida per non dire gassosa,
fatta d’indici, di speculazioni finanziarie, sempre più lontana dall’economia
reale e dalle tradizionali forme produttive su cui il capitale prospera(va), incarnata
dal palazzo della Borsa di Milano, fabbrica di sperequazioni sociali e di
sofferenze, per nulla gassose ma concrete e materiali; e quello della povertà
nel suo volto di miseria senza più domande, ripiegata a testa in giù e premuta
contro le vetrine delle banche che affollano le vie circostanti, quasi un EUR
mediolano, nelle loro roboanti architetture fasciste. Due poli opposti d’un
sistema con in mezzo, dicevamo, a mediare,
il dito medio.
Il colpo d’occhio che
abbraccia il palazzo della Borsa e queste presenze è notevole, logico e irreale
al tempo stesso, come se un fumettista avesse voluto condensare nella stessa
striscia la raffigurazione di fatti, eventi, situazioni legati tra loro da un
nesso causale, ma senza mostrare lo srotolarsi delle singole connessioni che,
da un polo, hanno condotto all’altro. Alla sua conseguenza. Dalla finanza alla miseria,
bellezza, e te lo mostro tutto in un’unica inquadratura. Milano è capace di
darti anche questo.
Questo ma non solo questo: perché
è proprio grazie alle uniche presenze vive d’una piazza silenziosa e immobile, a
questi tristiallegri derelitti che pasteggiano con vino, accampati sotto i
portici, a dirsi qualcosa o a bere o a dormire, o a fare tutte e tre le cose
contemporaneamente, che, in un’ottica sanamente ribaltata, piazza Affari
diventa altro. Un altro palcoscenico, in cui si proiettano vite vere. Nei
banchetti rimediati, nei sonni di sasso, nelle frasi scambiate arredando
di sporte di plastica, coperte e cartoni il loro appartamento comune a cielo
aperto affacciato su Palazzo Mezzanotte, costoro dimostrano di saperla lunga, con
la conquista di questo rettangolo di Milano di cui la notte – almeno la notte e
solo la notte – divengono legittimi proprietari. Luogo dove dormire,
mangiare, parlare, pisciare. Facendosi beffa superba della Borsa, dei
controlli, dei piantoni, delle telecamere, dei cartelli di proprietà privata e
di sosta vietata sotto a cui dormono i loro sonni, e pure del dito medio. Un
luogo che grazie a queste presenze si fa più accogliente, caldo, autentico,
nostro insomma e non solo di chi, di giorno, lo anima con la sua discutibile
presenza. Ed è solo grazie a queste presenze reali, in carne e ossa,
proprietarie di questo pezzo di città per una manciata d’ore della notte, uomini
veri e non ombre d’una umanità evanescente asservitasi al capitale, che piazza
degli Affari recupera la dignità di luogo milanese vero, di persone vere, luogo
senza colpa e senza bugia, dalla bellezza priva di macchie e di venature
ambigue.
Questo è il motivo per cui,
visto a mezzanotte, Palazzo Mezzanotte compare in questo bloggo, perché fermo
nei suoi meccanismi e nei suoi ingranaggi meschini, strappato anche se per poco ai suoi manovratori,
spogliato della menzogna e recuperato bello, limpido, corrusco. E, in attesa di fare la Rivoluzione, come ripeteva
sempre il libraio ambulante amico del topo Firmino, in una fugace ma epica rivincita
sotto la luna, può veramente diventare nostro,
sottratto a loro almeno per qualche
ora.