domenica 9 agosto 2015

Us and them – Piazza degli Affari, Borsa di Milano e dito medium

45°27'53.5"N 9°11'01.2"E


Dunque, coloro i quali sono ormai affezionati lettori di questo bloggo (cioè io e il mio cane) e sono quindi entrati nell’ottica, enunciata dal titolo, del racconto di quella Milano che, al contrario, esprime verità, rimarranno sorpresi nell’apprendere quale sarà il tema di questo post. Ciò di cui stiamo per parlare non è in effetti quanto ci si sarebbe aspettati di trovare in questo bloggo, tra le piccole grandi perle di questa città tanto care al quoricino di bugnato.
E questo perché, miei fedeli, stiamo per parlare, ebbene sì, di piazza Affari e del palazzo della Borsa di Milano. Booom! Non ve l’aspettavate, vero? C’avete pure ragione, ma nelle righe che seguiranno vi appariranno più chiare le ragioni per cui ho deciso di narrare questo luogo (e comunque io non ho nessun cane).

Ma andiamo con ordine. Piazza Affari, come è usualmente, giornalisticamente appellata, non si chiama così in realtà. Il toponimo esatto, riferito certo non alle attività borsistiche ma alla sede fisica ove esse avvengono, scritto nero su bianco sulla lastra di marmo leggibile in loco, è piazza degli Affari; con quella preposizione articolata che, bella serafica, ci racconta come in questo luogo si ‘facciano affari’. O meglio, più esatto, come qualcuno faccia affari. E mai come ora, visto che son questi gli anni in cui il neoliberismo ha vestito il capitale d’un volto finanziario, facendo della borsa – e non delle fabbriche, il che è ancora più inquietante – il suo laboratorio produttivo – ammesso che per l’appunto, in questo decennio di delocalizzazioni prima e desertificazione industriale poi, sia ancora lecito, parlando di economia, adoperare la definizione di ‘produttivo’. Insomma, una di quelle borse che si rassicurano nel saperci più poveri, reagendo a notizie tragiche come licenziamenti, tagli di salari e austerità con rialzi d’eccitazione perversa. Insomma, c’è parecchio di spaventoso in tutto ciò.

Ora, viste le debite premesse, diciamo la verità: per qual motivo pellegrinare verso piazza Affari, recandosi al cospetto del Palazzo della Borsa Italiana, anche detto Palazzo Mezzanotte dal nome dell’architetto che, nel 1931, lo progettò, e per di più menandovi in visita pure dei forestieri, come ho avuto l’onore di fare? Noi anagraficamente adulti (ma solo anagraficamente) che non abbiamo ancora superato la fase escrementizia, ci si va, ammettiamolo, solo per vedere il tanto discusso ditone medio, la scultura intitolata, assai ironicamente, L.O.V.E. Quanto ci piace il ditone di Maurizio Cattelan. Che sarà anche un furbastro, però è un furbastro molto simpatico. Sicché ci si va, in piazza degli Affari, per vedere il ditone che la Borsa ci pianta in quer posto. Che poi a guardarlo non è che la mano proprio alza il medio, gli è che ha le altre dita mozze; come a dire no ecco vedi, noi non vorremmo sfruttarvi, ridurvi alla fame e nel contempo arricchirci, ma vedi, non ci possiamo fare niente, è andata così, ma ti giuro che io non volevo, questa Mercedes, credimi io non la volevo. Insomma, il medio media tra noi e loro. Us and them. Come diceva lo zio Roger. Loro, noi e il medio in mezzo, in un messaggio che appare perfettamente intelligibile. Benché grossa, non è decisamente una mano che ci darà una mano questa. È una mano che dà tutt'altra idea, e appare pronta e capace, nel suo gigantismo, a prevaricare, e uso il termine ‘prevaricare’ giusto per non esser volgare. E pensate, le basta solo un dito! Insomma, qua il medium (è proprio il caso di dirlo) è esattamente il messaggio, per citare il sociologo avente il nome d’un amplificatore e per cognome McLuhan.
Per cui perché non andarci, via, sono pure ammessi i selfie di gruppo col medio alzato (ma senza bastone, vi prego: andiamo suvvia, l’umanità ha compiuto la sua strepitosa evoluzione e noi la buttiamo nel cesso con questa prolunga per scemi?), buontemponi che non siete altro, e del resto l’ho fatto pure io, ma mica con quattro amici zozzoni, bensì con la mia dolce famigliola (benché a onor delle cronache la mia composta mammina si sia astenuta dal gestaccio). Ora, quale momento migliore della giornata per darsi a queste buffonerie? Ecco, io sconsiglierei di raggiungere piazza degli Affari di giorno, sortita che si rivelerebbe un po’ amara e pure poco entusiasmante, vista la quota di piantoni e di gommini del tergi regimental vomitati fuori dal palazzo della Borsa, con le loro gambine sottili da cavallette. Avete fatto caso che questi personaggi son sempre alti e stecchi?
Ma di sera è tutta un'altra cosa. Il suggerimento è quello di arrivare da via San Maurilio, sfidando le asperità del pavè. Per vedere schiudersi allo sguardo una prima, parziale visione della piazza, inquadrata suggestivamente tra gli archi dell’edificio di fronte a Palazzo Mezzanotte, che creano quasi, nella luce della sera, uno scenario metafisico. E passo dopo passo, nell’inconfondibile luce calda gialla della notte milanese, ecco schiarirsi e definirsi le linee, quelle decò del Palazzo della Borsa (benché montate su un impianto di neoclassicismo semplificato che fa subito ventennio), tra semicolonne, fregi, le statue imponenti e massicce e naturalmente il ditone di Cattelan, che conserva anche in ore tarde il suo stupefacente biancore marmoreo, con le belle vene che lo attraversano, notazione anatomica esatta per un’opera che, in macro, evoca formalmente una rinascimentalità toscana, e non solo per l’impiego del marmo carrarese.

E quindi eccola la piazza: sgombra, vuota, deserta, coi piantoni che ci saranno pure sottoforma di occhi meccanici ma che almeno non si vedono, muta nelle architetture che la delimitano, e che offrono le loro facciate immobili allo sguardo e alla meraviglia dell’osservatore. Già, meraviglia, anche qui. Anche qui, anche se si è in piazza degli Affari e c’è puzza di merda, ma la bellezza malinconica di questo posto, che può essere bello solo di notte e mai di giorno, nella salubre pausa notturna dal viavai dei loschi personaggi che se ne appropriano, appare nitida, irrevocabile, insindacabile.
Ma la visione davvero forte cui è dato di assistere di notte in questo pezzo di città consacrato agli ‘affari’, affari sempre di qualcun altro, è la presenza, consuetudinaria e stanziale, di barboni. Sì, barboni. Senzacasa, clochard, chiamiamoli come ci pare. Down and out, it can't be helped but there's a lot of it about. Barboni, persone che vivono in strada. E che scelgono questo posto per la loro notte. Per dormire. Per vivere, per campare sotto alla luna. Come se s’affrontassero, nello spazio di cento metri, i due poli parossistici d’un sistema che ci impone un prezzo altissimo da pagare. Quello del finanzcapitalismo, la finanza liquida per non dire gassosa, fatta d’indici, di speculazioni finanziarie, sempre più lontana dall’economia reale e dalle tradizionali forme produttive su cui il capitale prospera(va), incarnata dal palazzo della Borsa di Milano, fabbrica di sperequazioni sociali e di sofferenze, per nulla gassose ma concrete e materiali; e quello della povertà nel suo volto di miseria senza più domande, ripiegata a testa in giù e premuta contro le vetrine delle banche che affollano le vie circostanti, quasi un EUR mediolano, nelle loro roboanti architetture fasciste. Due poli opposti d’un sistema con in mezzo, dicevamo, a mediare, il dito medio.
Il colpo d’occhio che abbraccia il palazzo della Borsa e queste presenze è notevole, logico e irreale al tempo stesso, come se un fumettista avesse voluto condensare nella stessa striscia la raffigurazione di fatti, eventi, situazioni legati tra loro da un nesso causale, ma senza mostrare lo srotolarsi delle singole connessioni che, da un polo, hanno condotto all’altro. Alla sua conseguenza. Dalla finanza alla miseria, bellezza, e te lo mostro tutto in un’unica inquadratura. Milano è capace di darti anche questo.
Questo ma non solo questo: perché è proprio grazie alle uniche presenze vive d’una piazza silenziosa e immobile, a questi tristiallegri derelitti che pasteggiano con vino, accampati sotto i portici, a dirsi qualcosa o a bere o a dormire, o a fare tutte e tre le cose contemporaneamente, che, in un’ottica sanamente ribaltata, piazza Affari diventa altro. Un altro palcoscenico, in cui si proiettano vite vere. Nei banchetti rimediati, nei sonni di sasso, nelle frasi scambiate arredando di sporte di plastica, coperte e cartoni il loro appartamento comune a cielo aperto affacciato su Palazzo Mezzanotte, costoro dimostrano di saperla lunga, con la conquista di questo rettangolo di Milano di cui la notte – almeno la notte e solo la notte – divengono legittimi proprietari. Luogo dove dormire, mangiare, parlare, pisciare. Facendosi beffa superba della Borsa, dei controlli, dei piantoni, delle telecamere, dei cartelli di proprietà privata e di sosta vietata sotto a cui dormono i loro sonni, e pure del dito medio. Un luogo che grazie a queste presenze si fa più accogliente, caldo, autentico, nostro insomma e non solo di chi, di giorno, lo anima con la sua discutibile presenza. Ed è solo grazie a queste presenze reali, in carne e ossa, proprietarie di questo pezzo di città per una manciata d’ore della notte, uomini veri e non ombre d’una umanità evanescente asservitasi al capitale, che piazza degli Affari recupera la dignità di luogo milanese vero, di persone vere, luogo senza colpa e senza bugia, dalla bellezza priva di macchie e di venature ambigue.

Questo è il motivo per cui, visto a mezzanotte, Palazzo Mezzanotte compare in questo bloggo, perché fermo nei suoi meccanismi e nei suoi ingranaggi meschini, strappato anche se per poco ai suoi manovratori, spogliato della menzogna e recuperato bello, limpido, corrusco.  E, in attesa di fare la Rivoluzione, come ripeteva sempre il libraio ambulante amico del topo Firmino, in una fugace ma epica rivincita sotto la luna, può veramente diventare nostro, sottratto a loro almeno per qualche ora.