venerdì 24 maggio 2019

È meglio una donna



Catalogo dei viventi/4

“Però allacciati la cintura” dico al ragazzino, 15-16 anni, accanto a me. Non ci conosciamo, ed è seduto nel sedile passeggero anteriore della mia macchina.
Riavvolgiamo il nastro. Cinque minuti prima mi preparavo a svoltare con la mia auto quando vedo un disperato correre in mezzo alla strada. Con l’aria o di un pazzo o di un ladruncolo o di uno che sta venendo inseguito e scappa.
Ovviamente come curvo il semaforo diventa rosso e mi costringe a fermarmi, mentre vedo la sagoma del corridore avvicinarsi sempre più. Per prudenza mi chiudo in auto. Sono le 23 passate, sono da sola e la strada è deserta. Nell’interminabile tempo del semaforo rosso il corridore mi raggiunge. Lo sapevo, porca puttana.
Eccolo, e infatti mi bussa sul finestrino. Porca di quella puttana di tua nonna, proprio a me.
Mi giro e lo guardo. È un ragazzino. Camicia a quadri con sotto una t-shirt. Jeans. La mano stringe un cellulare e degli auricolari. È agitato.
“Scusi! Scusi!” mi dice. “Può abbassare il vetro?” Pure questa, ragazzino di merda!
Eseguo con pochina voglia.
“Grazie!” risponde trafelato appena il finestrino scende, con il fiato corto per la corsa. “Mi scusi, mi sono perso, non riesco a capire dove sono. Lei sa dov’è la 14?” chiede velocissimo, parlando un italiano di chi è nato in Italia, nonostante la carnagione e i tratti tradiscano origini egiziane, o marocchine. O tunisine.
Passi il fatto che mi dia del lei - ormai sono un’anziana e la differenza di età rende il fatto ragionevole. Tra un po’ qualche ragazzino mi darà una mano ad attraversare la strada, sono pronta anche per quello.
“Dici il tram 14? Guarda che da qui non passa. Qui ci sono il 12 e il 19. Devi andare più avanti, la fermata è lì”
“Ah ok, è che sono sceso dal passante, ho il telefono scarico e devo aver sbagliato strada, sono andato dall’altra parte ed era tutto buio e mi sono spaventato” dice veloce con tono ancora trafelato.
“Ho visto che correvi”
“Eh... sì”
“Allora il tram 14 qui non lo prendi. Sali sul 19, lo incrocia avanti. Poi chiedi al conducente”
Sono vagamente in tensione, il semaforo a breve diventa verde, ma tanto non c’è nessuno in giro, siamo nel deserto dei tartari in questa sera milanese di fine luglio.
“È che devo tornare a casa, non so neanche che ore sono e non posso avvisare i miei. Ho fatto tardi e non sono molto pratico di qui, non è la mia zona. Poi li era tutto buio”
“...”
“Non è che mi può dare un passaggio lei?”
Questa domanda risuona nel mio cervello e io smetto all’istante di pensare. Tutto il resto è istinto.
“La prego!”
Un secondo.
Un secondo solo.
Quello spazio di tempo della lancetta di un orologio per spostarsi un secondo più in là.
Vedo la mia mano afferrare la borsa che ho sul sedile passeggero. Me la metto sulle gambe. Un secondo. Un secondo solo.
“Sali” gli dico senza guardarlo. “Dai sali” gli ridico aprendo la macchina.
Un secondo. Un secondo per pensare se puoi fidarti. Se puoi fidarti di un ragazzino di 16 anni che ti chiede un passaggio, di notte e in una periferia deserta.
Un secondo per fidarti solo dell’istinto: e il mio in quel momento mi ha detto: vai. Di sicuro, poi, quel che sarà sarà.

“Grazie!” dice riconoscente. Apre la portiera e si siede si fianco a me. A quel punto smetto di pensare e congetturare - che senso avrebbe adesso? Penso solo al momento.
“Però allacciati la cintura”
“Sì, mi scusi, grazie veramente tante” stringe tra le mani il suo cellulare, spento e con lo schermo rotto a ragnatela. Oltre agli auricolari annodati ha tra le mani anche un biglietto ferroviario.
“Allora, dov’è che ti posso portare? Alla fermata del 14? Dov’è che devi andare?”
“Sì, alla 14 va bene. Devo andare in via privata N.”
“Non la conosco. È in questa zona?”
“No”
“Vabè, allora io ti porto al 14. Poi tu sai in che direzione prenderlo?”
“Sì, penso di sì”
“Ma scusa, in che senso pensi di sì?”
“È che ci siamo trasferiti da poco, non conosco bene ancora...”
“Vabè, chiedi al conducente, lui lo saprà”
“Si...”
“Vuoi il mio cellulare per chiamare i tuoi?”
“No no va bene...”
“Ma scusa, mi spieghi cos’è successo? Come hai fatto ad arrivare qui? E a perderti?”
“Sono andato con degli amici in treno, a Treviglio. Siamo stati lì tutta la giornata ma non pensavamo che facevamo così tardi. Poi mi si è scaricato il cellulare e non potevo chiamare casa. Sono sceso dal treno mi ero fatto spiegare dove andare ma ho sbagliato lato, e lì era tutto buio”.
Il ragazzino mi sembra sinceramente terrorizzato e poco sgamato. Che devo fare, ormai l’ho tirato in auto. Devo solo fidarmi, posso solo fidarmi.
“Ma che ore sono adesso? Cerca con gli occhi il cruscotto dell’auto, che segna un orario sbagliato che dal cambio dell’ora non mi sono premunita di correggere. “Mezzanotte e mezzo??” Si spaventa.
“No, è sbagliato, sono le 23.30. Non funziona, in questa macchina non funziona quasi nulla” dico per impressionare una sua ipotetica vena da ladruncolo di auto o di borse, come a dire: vedi che sono povera ragazzino?
“Ah, ehhhh è un po’ tardi” guarda il cellulare passandoselo tra le mani e con un po’ di nervosismo.
“Ti aspettano a casa?”
“Sì, mia madre e mio padre. E ho una sorella più piccola”
“Che saranno incazzati vero? Perché non li hai avvisati”
“Ehhh ho paura di sì” risponde con l’aria di chi sa che lo aspetta un cazziatone epocale e forse anche qualche sberla.
“Ma cosa c’è di interessante da fare a Treviglio? Poi ‘sti amici, scusami, non potevano darti una mano se non sei della zona? E anche ‘sto cellulare, guarda che ci sono i caricabatterie portatili, se stai tutta la giornata fuori...”
E niente, è partito il cazziatone anche a me. Mi immagino suo padre e sua madre, con la tensione che si taglia a fette.
“Eh lo so... Me l’ero fatto spiegare dove andare, ma poi ho sbagliato tutto, mi sono spaventato, c’erano anche delle persone...”
“Infatti stavi correndo come un disperato. E pure in mezzo alla strada, che è anche pericoloso.” Seconda dose di cazziatone.
“Sì, per fortuna che poi è diventato rosso e ti sei fermata” dice passando al tu.
Sì, certo una gran fortuna ragazzino del cazzo.
“Poi ho visto che dentro l’auto c’era una donna... È meglio una donna, no?”
“Ehh caro mio, diciamo che dobbiamo fare a fidarci tutti e due” gli rispondo, con un’ironia che forse non capisce fino in fondo.
“Comunque grazie, grazie, mi hai salvato la vita” dice in maniera adolescenziale giungendo le mani a mo’ di ringraziamento.
“Dai niente, non preoccuparti. Allora ti porto alla fermata del 14”
“Sì... altrimenti non potresti portarmi a casa?”
Ah regazzì, mo stai iniziando a cacare il cazzo. Però lo vedo sinceramente disorientato.
“Eh ma io non ho capito dove abiti. Hai detto che non è in zona. Il 14 in che direzione lo devi prendere, Duomo o Cimitero Maggiore?”
Ci pensa un secondo. “Cimitero!” Gli si accende una lampadina. “Io devo andare in via Privata N.”
“E ho capito, ma io la tua via non la conosco.”
“Cosa c’è vicino?”
“La fermata della 14”
Il 14 cazzo, IL 14 cazzo, sto “la 14” inizia a mandarmi ai pazzi.
“Quindi se facciamo in auto tutte le fermate del 14 tu riesci a capire a quale altezza è casa tua?”
“Sì, penso di sì”
“Dai allora facciamo così”
“Grazie!” dice sempre più sciolto dall’emozione, la sua tensione si è allentata quasi del tutto. Rimane quella per le legnate che si prenderà stasera, ma non importa, se suo padre mi permettesse di partecipare alla sessione lo legnerei anch’io per tutta la sudazza che mi sta procurando.
“Vicino comunque c’è un supermercato”
“Mmm. Che supermercato è?
“Non me lo ricordo”
“È il Conad?”
“Eh non lo so”
“Ma c’è una chiesa vicino?”
“Mi sembra di sì”
“E una scuola? In via Pareto?”
“Sì, questa via l’ho sentita! È dietro casa mia!”
“Ecco, allora ho capito”
“Sì, io devo andare in via Privata N.”
Aridaje, t’ho detto che non la conosco, a regazzì, m’hai preso per tassinaro?
“Ho capito, ma non la conosco ‘sta via! Ma tu abitavi in un’altra zona di Milano?”
“Vivevamo a Cormano. Siamo qui da tre mesi”
“Ho capito”.
Metto la freccia per girare a sinistra quand’ecco che esplode:
“Ecco!! Qui devi andare!” si anima parecchio e mi indica la svolta a destra. “Qui dobbiamo andare, di qua è casa mia!”
La strada che mi indica è una delle vie più desolate della zona. Porta direttamente alle autostrade, è già desolata di giorno e di sera ancora di più. Insiste che devo andare per di là, in una strada di camion parcheggiati buia e dove non passa anima viva. Si è acceso e insiste.
E infatti ragazzino quella strada non la facciamo.
“No guarda, ormai ho messo la freccia e sto girando. Ti ci porto da un altro lato, non preoccuparti”
Adesso è lui impensierito. La solidarietà tra sconosciuti è un mix di affidamento e diffidenza reciproca. Io non voglio fare la strada deserta e buia che mi proponi con grande insistenza ma nemmeno tu vuoi fare quella che ti propongo io, che ha tutta l’aria di non essere la strada giusta e di farti allontanare da casa. È un delicato equilibrio che si nutre della dialettica tra bisogno manifesto e aiuto offerto, e la buona fede di ambedue le cose, bisogno da una parte e aiuto dall’altra, è costantemente passata al vaglio da ciascuno dei due estranei coinvolti, ognuno dalla sua posizione.
Poche altre svolte e alla fine il paesaggio urbano gli torna familiare.
“Eccoci, qui c’è casa mia! Li c’è il supermercato e la via Privata N. è lì!”
“Senti allora io mi fermerei. Sei ancora lontano?”
“No no è lì dentro, sono subito arrivato. Grazie, grazie, grazie ancora, mi hai salvato proprio, non so come ringraziarti”
“Dai tranquillo. Però la prossima volta stai più attento con orari, strade eh. Come ti chiami? Posso chiedertelo?”
È un nome che ho dimenticato quella stessa sera. Un nome del Paese dei suoi genitori.
“Dai allora qua la mano” lo invito con la mia mano a una stretta.
“Grazie eh, grazie ancora!” dice dandomi la mano e il classico finto bacio milanese sulle guance dei saluti.
“Vai tranquillo, buonanotte”
“Notte!” chiude la portiera e prende a correre velocissimo verso ‘sta via Privata N., che prima manco sapevo che esistesse.
Aspetto un attimo a partire. Tiro un respiro lungo. Rimetto la borsa dove stava prima. È quasi mezzanotte, la Milano di luglio è limpida e deserta e di acceso in questa via ci sono i lampioni, le quattro frecce della mia macchina e l’insegna del Conad. E le mie ghiandole sudoripare ascellari, in iperproduzione da sudazza tensiva finalmente allentata.
Lui è arrivato a casa, adesso posso tornare a casa anch’io.


Milano, luglio 2017