lunedì 3 novembre 2014

Il giardino filosofico - Com'è bello com'è bello il nuovo parco del Portello



Quest’oggi, miei millemila lettori, andiamo alla scoperta di un altro angolo(ne) di verde milanese di tutto rispetto, non antico ma recente, simbolo anche questo della trasformazione urbana di cui, nel bene e nel male, è stata oggetto negli ultimi otto-dieci anni la città della scrofa semilanuta.
Il parco di cui parliamo è stato infatti inaugurato solo nel 2012, dopo un’attesa impaziente, una gestazione lunghissima durante la quale circolavano sul web rendering capaci solo d’accrescere l’acquolina in bocca e la curiositas. Un mega cantiere misterioso, sorto in una zona della città, quella del Portello, lustri addietro occupata dallo stabilimento dell’Alfa Romeo, allora la FIAT milanese, per estensione e numero di addetti, pur fatte le debite proporzioni. Un’ex area industriale dunque, risorta dopo l’abbandono per merito d’un massiccio ma azzeccato sconvolgimento edilizio, articolato in molteplici e riusciti interventi architettonici, sotto l’egida d’un macroprogetto targato Studio Valle: la realizzazione del fondamentale CC Portello, le case nuove di Cino Zucchi in largo Zanuso (di cui però parleremo un’altra volta, onde concentrarci quivi sul già corposo capitolo del parco), svariati ponti, braccia tese d’acciaio che fungono da collegamento tra i quartieri contigui, e, last but not least, il parco di cui testé andremo a raccontare. Insomma, come vedete c’è molta carnazza al fuoco, e io, che da par mio non so cucinare nemmanco una minestrina, sarò il vostro chef.

Il nuovo parco del Portello, realizzato dallo studio Land, nasce da un’idea di Charles Jencks, apprezzato e noto paesaggista, americano ma scozzese d’adozione, signore non giovanissimissimo che val sul serio l’impegno di conoscere. E forse bisogna proprio partire da lui, per parlare del parco del Portello. Amico di Peter Higgs (quello del bosone, ricordate? - qui una foto che li ritrae assieme in gioviale compagnia del fu direttore del Cern; ovviamente Jencks è quello vestito da giardiniere) e di Jeremy Watson, scopritore del DNA, ha saputo modellare, con intelligenza e cultura che di certo non gli mancano, un parco che è più di un parco: è un percorso narrativo, una passeggiata in cui nulla è lasciato al caso, ma anzi in cui tutto, ogni singolo tassello, concorre a un disegno unitario e meditato, che risponde alla precisa esigenza di avere un significato. Senza volervi annoiare addentrandomi in particolarismi et vicessitudini dell’architettura d’oggidi (anche perché io stessa non ne so naturalmente un cazzosega), cari miei millemila lettori (sì, sono un tantino più sbruffoncella di Manzoni), Jencks si offre dal suo punto di vista in antitesi ad edifici che egli considera vuotamente iconici come il Guggenheim di Bilbao, di Frank O. Gehry, che ha a suo dire segnato uno iato nell’architettura contemporanea, aprendo una sorta di gara inutile all’edificio più ‘più’; epperò qui Mr Jencks mi trova in disaccordo con lui. Il suddetto Museo è bello, più dei brutti grattacieli che Isozaki e Renzo Piano stanno disseminando in molte città italiane. E non direi che sia vuoto di significato: è in fondo un edificio-opera d’arte che funge da museo per altre opere d’arte contemporanea. Il nesso dunque, quantunque magari semplicistico, mi par ci sia, piacciano o non piacciano le linee studiatamente sbilenche che lo compongono – tipo hey Frank, hai litigato con la carta stagnola.
Ma al di là di questa piccola divergenza di vedute rispetto all’opera di Gehry, sono assolutamente concorde con Jencks quando afferma che un edificio, o una realizzazione destinata al tessuto urbano, non deve essere in sé gratuita, priva di pensiero, slegata dallo Zeitgeist, ma frutto del suo tempo o ancor meglio dello spirito del tempo, offrendo a coloro i quali ne saranno, in senso lato, gli ‘abitanti’, uno spazio di fruizione non solo materiale, strictu sensu (è un parco, chiaro, ci si passeggia, gioca e ci si piscia il cane), ma di pensiero, di riflessione, esperita in prima persona.
La decadenza dell’architettura contemporanea è legata, secondo Jencks, al declino di quelle narrative laiche condivise, come progresso, socialismo e democrazia. Per questo l’architettura e l’architettura di paesaggio in particolare, quest’ultima utilizzando quali proprie componenti i secolari strumenti offerti dalla Terra, terra, semi, erba, acqua e luce, debbono tornare a mettere al centro d’un progetto un senso. Un senso che nel parco del Portello si individua perfettamente: tutta la composizione di questo giardino costituisce un inno alla scienza, al progresso, al lungo percorso di conoscenza, scoperta ed elaborazione intrapreso dall’uomo sin dalla sua comparsa; un’esaltazione del positivismo del postmoderno. Questo è il senso affidato da Jencks alla sua opera milanese. Un manuale, da sfogliare, per ricordarci il cammino straordinario della Terra e dell’uomo, un riassunto dell’evoluzione, come ci ha condotto sin qui dall’alba del mondo.
Il parco del Portello racconta tutto questo; non rifugge il concetto, il ragionamento, l’intelligenza, ma ne è al contrario informato. In un progetto che, oltre a ciò (e forse proprio questo), anche nella sua fruizione più immediata, e nel semplice aspetto parchistico ‘visivo’ si rivela bellissimo e radioso. Ancor più di come appariva nei rendering diffusi prima della realizzazione e dell’apertura. L’intelligenza è, del resto, bellezza.       
E altro merito del progetto di Jencks, squisitamente sotto al profilo formale, è quello di aver realizzato, in controtendenza rispetto all’attualità, un parco assai disegnato – e come tale ben poco a bassa manutenzione – accostabile per ambizione ai superbi giardini cinque e secenteschi; con un’accuratezza e nitidezza delle forme, quasi scolpite, che nel giardino moderno non si erano decisamente vedute più. E ciò conferisce ulteriore valore a questo parco e a questo progettista.

E giustamente, dopo questi sproloqui, vi starete chiedendo come minchia è fatto questo parco.
Andiamo dunque a descriverlo.

Con i suoi ottantamila metri quadri, il parco del Portello non è esattamente quello che si potrebbe definire un giardinetto. È una composizione complessa, un accostamento di zone, di aree differenti, in una passeggiata coinvolgente, sempre nuova e mai uguale, ricca di visuali.
Possiede una montagnola verdissima, la cui sommità è raggiungibile da un doppio percorso di sentieri a spirale, che nel loro snodarsi non si incontrano mai; come le eliche del DNA. E difatti in cima è collocata una fontana al centro della quale sorge una scultura, che proprio un segmento di acido deossiribonucleico rappresenta. Da qui potrete godere d’una spettacolare visuale sul parco, o se preferite (son gusti) d’una visuale sull’ameno viale Serra, forse una delle vie più inquinate di Milano. Ora ben contrastata, però, da questo meraviglioso polmone verde.
Accanto alla montagnola, che dialoga, benché a distanza, col Montestella poco più avanti, storica ‘montagnetta’ della città di Milano, sorge una doppia collina sinuosa, a forma di S, che sembra il dorso d’una creatura preistorica, il cui crinale è percorribile, avventurandosi nella stradina di ghiaia ricavata tra due filari paralleli di siepi. E nello spazio creatosi al centro, il laghetto: uno specchio d’acqua circolare, tagliato da una lingua di terra erbosa che fa somigliare i due bacini così ricavati, come mi suggeriva un evidentemente attento collega (ebbravo Andrea!), al sole e allo spicchio di luna (bisogna vederlo). Tutto intorno al laghetto, a ridosso della collina, corre una panchina, messa in opera solo dopo l’apertura del parco, una panchina infinita, la classica panchina a listarelle verdi dei parchi, che è però qui continua, e sembra quasi voler riunire tutti i visitatori, anziché in panche disperse e separate, in un’unica seduta. Che è già un’idea geniale e meravigliosa.
Superata la zona delle collinette, ecco un’area destinata ai bimbi, tra altalene, giochi vari e un'altra lunga panca per gli sfatti genitori.
Ma ecco che, da qui, percorsa una passerella in discesa, si accede alla zona più raccolta e meravigliosa di tutto il parco. Un giardino segreto, un luogo di tranquillità purissima e di bellezza assoluta, scandito da una trama di piante, fiori e arbusti che crea una visione unica, quasi un acquerello dominato dai colori del rosa. Ciliegi, lavanda, rose canine, edera e barberis rosso; in primavera è un’esplosione, tra i ciliegi in fiore, i cui petali si radunano in modo struggente per terra, creando un pavimentino umidiccio sul quale atterrare di culo è invero assai facile, e il muro rossastro che lo cinge dall’altra parte, sotto a un pergolato d’edera.
Questo spazio si chiama Time garden, ed è attraversato longitudinalmente da un sentiero rivestito da 183 piastrelle nere e 182 piastrelle bianche, a simboleggiare i 365 giorni dell’anno, in un percorso che racconta le ere della preistoria, storia e presente, scandite dai grandi trapassi dell’evoluzione: l’origine, la creazione degli atomi, le galassie, la nascita della Terra e le prime forme di vita. Che poi sono le cose superbelle che ci insegnano le maestre alle elementari, solo che poi tendiamo lentamente a dimenticarle. E sui sedili rosa che lo bordeggiano, ecco incisi su lastre d’acciaio satinato i nomi delle stagioni e su divisori aggettanti i nomi dei mesi dell’anno.
Lo scorrere del tempo, quindi, in piccolo e in grande. A misura d’uomo e a misura del cosmo. Questo è il racconto fatto dal giardino del Tempo. Ed è commovente come questo delicato hortus conclusus costituisca, tutt’altro che casualmente, una visuale impagabile, e anche uno spazio da vivere, per gli ospiti della casa di riposo di fronte; persone che di scorrere del tempo se ne intendono. Insomma, finalmente qualcuno che pensa pure ai vecchiarelli, mica solo (si veda il giardino della GAM) ai mocciosi!
Nella morfologia del parco ricorrono riferimenti a galassie, conchiglie, spirali ed eliche; forme primordiali, antiche quanto è antico il mondo ma così faticosamente scoperte e descritte dall’uomo, nel suo lungo, avvincente cammino d’esperienza e conoscenza, assistito dagli strumenti che la tecnica ha saputo via via approntare. Un lungo cammino difficile, irto di superstizioni e credenze da abbattere, di teologie e dottrine avverse, di ipse dixit, di libri bruciati e di altri esaltati come il vangelo (letteralmente!), di processi, roghi e abiure da scontare. Ma è un cammino che ci ha condotti fin qui, che ci ha fatto conoscere la sfericità della Terra, il sistema solare, il moto celeste, il funzionamento del nostro organismo, l’atomo, il DNA. E il bosone di Higgs, eh, non ce lo dimentichiamo, che Higgs è pure amico di Charles Jencks. Un cammino irrinunciabile e irrinunciabilmente laico.

Questo è ciò che il signor Jencks ci racconta nel suo parco meraviglioso.
Ed è per questo che, per assaporare in pieno le potenzialità di questo parco, è bello tornarci in tutte le stagioni, vederlo in fiore e sotto la neve, per calarvi in una sorta di metafruizione d’un giardino che vuole esattamente raccontarvi questo: il Time walk, lo scorrere del Tempo.
Dopodiché rimane un parco, un parco dove poter fare tutte le cose che si fanno in un parco. Correre, camminare, sedersi sull’erba sfidando animali feroci come vespe e zanzare, ma anche offrendosi la possibilità di fare incontri casuali con coccinelle e piccoli maggiolini cangianti di passaggio. Un luogo in cui cercare quadrifogli, leggere, passeggiare e sostare, magari improvvisando piacevoli picnic. Nel Time Garden ad esempio i tavolini di pietra con relativi sedili, immersi tra i fiori (e qua veramente chapeau a chi ha avuto l’idea di inserirli), sembrano esattamente invogliare a un sano aperitivo biologico, tra succo di pomodoro e barrette vegan (scherzavo eh, crodino fonzies e rutto libero è la giusta combinazione – e comunque vicino c’è pure un Mc Donald’s in cui rifornirsi di cibo quello sì de sostanza).

Non so misurare la sorpresa che ebbi quando percorsi per la prima volta gli spazi completamente nuovi del parco del Portello: era dicembre, aveva appena nevicato e la collina era bianca come se qualcuno le avesse polverizzato sopra, con un setaccio, dello zucchero a velo, splendeva il sole e per fare onore all’età mia e a quella di chi era con me ci si dedicò a simpatici giuochi con le lastre di ghiaccio trovate qua e là intorno al laghetto – che era, difatti, completamente ghiacciato. Un paesaggio sconosciuto ma che ci aveva già fornito gli elementi per cazzare sentirci accolti e a proprio agio in questo grembo racchiuso, cinto tra le dune erbose.
E bello fu tornarci a primavera, coi ciliegi in fiore, un fuoco d’artificio rosa da rimanere a bocca aperta, sotto una pioggia lenta di petali chiari. Poi è venuta la calda estate, per sperimentare, riparati dall’edera, tra chiacchiere fitte con le persone giuste, un po’ di sana sudazza dall’ascella; e poi di nuovo l’autunno, con il suo paesaggio esanime e sfiorente, preparazione a un freddo inverno incubatore d’una nuova primavera. E mobbasta, perché stiamo finendo in zona Kokin waka shū, e non vorrei, mica sono un lirico giapponese.

Tutto questo per dire, e di parole ne ho spese sin troppe, che il parco del Portello è un parco bellissimo, e che vederlo una sola volta non basta, ma occorre tornarci, come in tutti i bei luoghi di questa città.
Un giardino filosofico, quello che il signor Charles Jencks ha deciso di regalarmi a pochi minuti da casa mia, che potrebbe entrare già ora, di diritto, nel libriccino sull’arte dei giardini di Pierre Grimal. Proprio come espressione e proiezione migliore del suo tempo, un tempo della Scienza e della ricerca della verità, che ci invita a trovare spazio per il pensiero e la lentezza, in un mondo dominato da logiche mercantili (e capitaliste) e a liberarci di antiche zavorre e idoli ingombranti che impediscono il progresso dell’umanità. Che è una di quelle narrative laiche nel cui declino Jencks intravede fenomeni di decadenza, dell’architettura e, azzarderei, non solo.

Quante cose, insomma, se si vuole, possono esserci in un parco. Al nuovo parco bellissimo del Portello, a Milano, nella nostra città, thanks to Mr Jencks, oggi, si trova tutto questo.