martedì 29 dicembre 2015

RdP – Natale a Milano

Carissimi, pazientissimi aficionados, o voi che riuscite a tollerare lunghe attese tra un post e l’altro, voi che – già lo scrissi – affollate il server che ospita il mio umile bloggo facendolo sovente crashare per l’inteso traffico che quivi provocate, voi! Voi insomma, sì, proprio voi (due): ciò attendevate da settimane è finalmente giunto! Come dite, parlate del tanto atteso post sull’Expo? Mannò miei cari, che illusi, quello arriverà forse a primavera dell’anno venturo inoltrata, quando dell’Expo non gliene fregherà più una fava ad alcuno, come praticamente già dal primo di novembre di quest’anno, quando il circobaraccone ha (finalmente) chiuso i battenti. Ma arriverà anche quel post non disperate: ché dobbiamo forse farne una questione di tempo? Ma andiamo! Vi ricordo che il titolo del bloggo che visitate cercandovi con grande affanno nuove notizie è rubacchiato da una canzone degli Afterhours dedicata a Milano, dal titolo ‘L’inutilità della puntualità’... Vi ho convinti adesso?

Sicchè se vi ho adunato qui al calar dell’anno, questo 2015 che volge a chiudersi per sempre, è proprio per parlare, come d’altra parte il titolo del post vi avrà suggerito – del Natale a Milano, con appunto il già sopracitato tempismo eheheh.
Questa volta il piccione Ambrogio nel suo volo per le strade meneghine ha catturato le immagini d’una città dicembrina che nelle sue luminarie, nelle sue luci gialle, nel suo lungo e sottile (un tantino sproporzionatello, non credete?) albero di Natale allestito in piazza Duomo e nel suo sfavillante Ottagono di violablu vestito, sa forse più di tanti altri luoghi incarnare la piena e imprevista magia di questa festa tanto attesa.

Natale a Milano, per me, per me che il Natale lo passo sempre da un’altra parte e non nella mia bella città, significa aspettarla questa festa, prepararla: fare le maratone per acquistare gli ultimi (ma diciamo anche i primi) regali, scegliere la stella di Natale più bellina e regalarla alla mia portinaia per il suo servizio pressocché quotidiano di ritiro pacchi (gli acquisti online hanno generato in me una vera addiction, nonostante non c’abbi una lira), brindare e farsi gli auguri per le feste con la mia amica e collega Marina, nella piadineria che amiamo tanto. Passeggiare al freddo con un paio di dita congelate con la persona del mio coeur, parcheggiare, dopo millemila giri e quando ti sembra d'aver trovato un posto accorgersi che c'è sempre la solita smart di minchia spinta bene in avanti (non sai dove te la spingerei per bene io, guidatore di Smart che ti diletti col tuo mezzo cervello a far questi giochetti con la tua mezza macchina), l’auto al Portello e ascoltare in radio le canzoni di Natale filodiffuse per tutto il parcheggio, comprare pan de toni, girare in auto alla sera per scovare i balconi addobbati con le luminarie, i balconi di questi milanesi vivaddio sempre meno milanesi che si impegnano ad addobbare la propria città: non la propria casa, ma l’esterno dei loro appartamenti popolari, in periferia, per condividere una decorazione collettiva, un’atmosfera di festa diffusa, partecipata. Questo significa aspettare il Natale qui.

E poi c’è il centro: sfavillante, appunto. Questa piazza così piena, lascia un vuoto che fa pena, come cantavano i La Crus nella loro meravigliosa ‘Natale a Milano’. Inno alla pubblicità, stuprare il cuore alle città, renderle solo vanità, mi fa confondere. Ma se è vero che Milano non è la verità, non è a questo che dobbiamo guardare. Non ai merdoni che fanno shopping alla Rinascente, non ai manifesti dubbi tappezzati in giro (ne ho visto uno sui marò… pietà vi prego numididdio!), non all’albero Swarovski coi piantoni in Galleria. Librare lo sguardo. Guardare in alto. Il Duomo con le vetrate accese, qualcosa da rimanere a bocca aperta. L’alberino issato in piazza Duomo (un tantino smilzo e sfighello, posso dirlo? ah l’avevo già detto?) e poi l’Ottagono, magico, con il suo stuolo di lucine tremolanti fantastiche, viola e blu, risaltanti tra i palazzi crema della Galleria, rinnovati e tornati a splendere grazie a un recente, accorto restauro. Talmente belle queste lucine che quasi ti è possibile nello sguardo espungere otticamente il simbolo del comune che vi troneggia in mezzo, una vera tristeria, ma siamo buoni e lo prendiamo come un perfetto, equilibrato e mirabile saggio estetico sul kitsch contemporaneo più spinto.

Il tutto: il tutto mentre i tram sferragliano, l’aria è ferma e incupita dallo smog e dalla nebbiolina, e il freddo è ai massimi livelli. Un’atmosfera soffusa, lattea quasi, puntellata qua e là dai punti luce dei lampioni. E se è vero che le lampade al sodio sembrano stelle con cui non puoi orientare il cuore, è in questa magica stagione (ammetto bamboccescamente di essere assai Christmas oriented), in questa magica, superlativa atmosfera natalizia di cui si ammanta la mia città, la cui luminaria più dorata e accesa resta sempre la Madonnina, che io la mia stella cometa la vedo, eccome: e nonostante tutto conduce e orienta il mio cuore sempre qui, sempre a Milano, la mia bellissima,  clamorosamente imperfetta e vera città. 










domenica 22 novembre 2015

Voi, Milano e ciascuno di voi/Partecipante n°5: Elisabetta Jankovic

Carissimi amici aficionados del bloggo, eccoci oggi a una nuova puntata del nostro giocone Voi, Milano e ciascuno di voi. Una puntata che si preannuncia particolarmente emozionante miei cari, scoppiettante direi, perché ospite del mio piccolo e umile bloggo stavolta è – ebbene sì – una vera vip. Dico sul serio eh. Non solo, come tutti i protagonisti delle puntate precedenti, una vip del mio cuore; nonnò, non solo. Proprio una vera very important person.
Signore e signori, ecco a voi… le cinque domande di Elisabetta Jankovic, architetto, professoressa di storia dell’arte, speaker e giornalista radiofonica, autrice di meraviglioserrimi libri per bimbi and much more, chi più ne ha più metta. Una donna colta, creativa, comunicativa, coinvolgente, appassionata, sensibile nonché una grande viaggiatrice. Una persona sempre pronta a sperimentare cose nuove, a misurarsi in frangenti diversi, con curiosità e pure – aggiungerei nel suo caso – un bel pizzico d’avventura. E poi, last but not least, anche una bella, bellissima gnoccolona donna, perché in tutto questo anche l’occhio, diciamocelo, vuole la sua parte.

Da dove incominciare per descrivere la sua vulcanica personalità? Davvero non saprei. Chi vi scrive ha avuto la gran fortuna di conoscerla a scuola, alle superiori: lei è stata la mia grandiosa prof di storia dell’arte, materia l'amore nei confronti della quale ha provveduto a consolidare, elargendo talvolta alla sottoscritta – perdonerete queste vanterie eheheh – 10+ (giuro!) nei compiti in classe! 10+ signoriddio! Insomma, un vero tesoro. Un’insegnante capace di uscire dal seminato angusto delle consuetudini scolastiche, per gettare qualche granello di imprevedibilità e di accesa passione nel lavoro e portarne un po’ anche in noi, valorizzando, come in questo caso, il nostro impegno e il nostro interesse… Quindi, l’aneddoto del 10+, più che parlavi di me, vi parla di lei, e della sua scherzosa originalità, merce assolutamente rara. Vederla arrivare in aula con i suoi capelli biondi luminosi, il suo sorriso contagioso e col malloppo di libri e quaderni tra le braccia mentre ci diceva ‘Ciao ragazze!’ era l’inizio di un’ora di belle cose, che scivolava via parlando di pittori, di artisti, di quadri. Ma come si faceva a non volerle bene? Che ricordi meravigliosi. E cazzperina, a fare un rapido calcolo son già passati dieci anni! [disse disperandosi per l’incipiente vecchiaia]

Poi che accadde? Che, semplicemente, come sovente succede, finito il tempo della scuola io persi le tracce di questa mia cara professoressa. Ma debbo dire che, benché ‘a distanza’, continuavo un po’ a seguirne le strepitose gesta: leggendo soprattutto i suoi libri per marmocchietti, delle vere meraviglie. Storie commuoventi, dense di significato ma così piene di leggerezza e poesia. Letture un po’ magiche, universi di carta capaci, anche presso i più cresciutelli (presente!), di far bene al cuore. Esattamente come lei. Esattamente come la mia grandissima e grintosissima prof Janko, che in parallelo continuava la sua attività di speaker in Radio Popolare e poi alla radio svizzera. Ebbene no miei cari, non sono le giornate della mia prof ad essere di cinquanta ore, è lei che è meravigliosamente multitasking, con l’aria che ha di eterna ragazzina. Piena d’entusiasmo puro e travolgente.

Eppoi è successo che… qualche mese fa, in un accesso di nostalgia per i bei tempi che furo, le ho scritto una letterina. E gliel’ho scritta a mano, recapitata alla scuola dove ancora insegna. Le ho scritto che mi mancava, che ogni tanto pensavo a lei e alla sua vulcanica personalità e che mi sarebbe piaciuto rivederla… Il pomeriggio stesso mi ha contattato per dirmi che la cosa l’aveva veramente commossa e che sì, potevamo assolutamente berci questo caffettino insieme… ed è stato per me semplicemente emozionante.
 Così ci siamo incontrate, nella cornice milanesissima dei fantastici giardini di Porta Venezia: e, santo cielo, è stato come rivederla l’ultimo mio giorno di scuola. È sempre la bella ragazza bionda con gli occhi chiari e dolci, con la quale abbiamo trascorso un’ora meravigliosa di aggiornamenti, risate e chiacchiere, prima di vederla rimontare in sella del suo scooter per le strade di Milano. Inutile dire che sembrava lei la ragazzina e io la vegliarda professoressa, gesù (ovviamente priva però della sua scienza docenziale).

Ed ecco che… potevo io non coinvolgere un’anima così sensibile, speciale e con così tante cose da raccontare, nella mia epopea bloggosa e, soprattutto nel mio diabolico giuoco delle cinque domande? Ovviamente non potevo esimermi! E ciò che mi ha veramente commosso è stato l’entusiasmo che lei ha immantinente dimostrato nel darmi le sue cinque risposte. Che ha dimostrato dunque sì nei confronti del gioco ma che, in buona sostanza, ha riservato a me, a questa sua ex alunnina un po’ stagionatella, una tra le centinaia di studenti a cui avrà raccontato, come lei sa fare, storie ed aneddoti del grande mondo dell’arte… Sostanzialmente eseguendo un compito che io, alunna, avevo assegnato a lei, prof, in un ribaltamento dei ruoli giocoso e divertente. Insomma, non vi dico l’emozione quando un giorno, aprendo la mail, ho trovato vergate le sue cinque domande. Che onore! E che emozione è stato leggerle, scoprendo dalle sue parole il suo amore per Milano, l’amore per il lato buono, bello e vero di questa città, che offre le sue bellezze migliori a chi la osserva, la vive e la respira col cuore aperto, come quello della mia ex prof… 

Per cui prof grazie di cuore per aver deciso di partecipare!
E voi miei cari amici, non siete assolutamente curiosi di conoscere le cinque risposte di Elisabetta?


No vabbè dai, ma chi è che non si scioglie di fronte a tutta questa dolcissima dolcezza della mia prof?

1.
Il luogo preferito
Amo i giardini di Porta Venezia, Giardini Montanelli. Mi piacciono perché li attraverso in bici ogni mattina andando al lavoro. Ci metto meno di tre minuti, ma sono tre minuti indispensabili perché sostituisco (sempre per tre minuti) il verde (o il rosso o il giallo o il bianco, a seconda delle stagioni) al grigio dei palazzi milanesi e dell'asfalto. I giardini Montanelli non sono “bosco”, non sono “parco”... sono proprio “giardino” e, anche se è pieno di gente, lo sento mio.

2.
Il luogo del cuore
Il mio luogo del cuore non c'è più... l'ha chiuso la polizia cinque anni fa perché non era conforme con le leggi della sicurezza. Si trattava della discoteca “Matisse”, in Piazza Carlo Erba. E con questa scelta confermo per chi non ne fosse convinto, che sono le persone che fanno i luoghi... sì perché il locale “Matisse” era veramente scrauso, cioè di certo a Milano e provincia ci saranno decine di locali più spaziosi, spettacolari, attrezzati, “performanti”. Il Matisse invece era sotterraneo, caldo, divanetti cheap e con giusto la palla stroboscopica e faretti. Però è lì che nel lontano 1999 ho presentato la seconda edizione dell'Extrafestival di Radio Popolare ed è soprattutto lì che ho conosciuto il barista che anni dopo è diventato mio marito. Ok, il matrimonio poi è naufragato, però è stato il grande grandissimo amore della mia vita. E ogni volta che passo da Piazza Carlo Erba lancio un'occhiata nostalgica alla saracinesca abbassata dell' ex Matisse e il cuore, incredibile dopo tutti questi anni, fa un tuffetto.

3.
Il pezzo da novanta
Il dito medio di Cattelan. Non lo porterei davanti a casa, ma me ne farei fare un modellino piccolino e lo metterei sulla scrivania per ricordarmi che posso sempre mandare a quel paese  chiunque, in qualsiasi momento, e per tutto il tempo che voglio! Comunque la scultura di Cattelan lì piazzata davanti alla Borsa, al tempio della finanza, la trovo semplicemente geniale... perché sottoscrivo al cento per cento ciò che scriveva Herman Hesse: “questo tempo della tecnica, del denaro, della guerra, dell'avidità, un tempo che pretende avere splendore e grandezza, ma che la parte migliore di me non può ne accettare, né amare, al massimo sopportare” .

4.
Il luogo più sbalorditivo
Il finto coro realizzato da Bramante in Santa Maria presso San Satiro. Mi sorprende sempre, mi permette di far sorprendere i miei studenti e di obbligarli ad ascoltare un'intera lezione sul Rinascimento a Milano (e tutto quello che ne è seguito)!

5.
L’itinerario che suggerisci
Vale se vi suggerisco un tour che parte da Milano e arriva a Sesto Calende? Mi viene in mente questo giro in bici perché è alla portata di tutti! Si parte dalla Darsena e si va verso il lago. Settanta chilometri circa di una pista ciclabile tutta sul piano!!! Fantastica! Poi si torna in treno: in un'ora sarete in Stazione Garibaldi.

***

Signori, ma allora, che dire? La Chiesa di Santa Maria presso San Satiro continua a fare strage di cuori e si riconferma la più nominata di questo giuocone, già citata dal mio babbo e da Pinco. Il ditone medio è una gagliardissima new entry nelle risposte, sebbene già affrontato qui nel mio pezzo su Piazza Affari… E adoro, adoro, adoro le motivazioni date dalla mia prof, cui mi allineo in pieno: l’odio dal cuore per la finanza e il capitale (che è del resto, il dark side di questa città) e anche l’atto, liberatorio, di poter mandare a quel paese chi ci ruba i giorni, gli anni, la pazienza e la felicità, in un sistema sempre meno umano, solidale e ospitale. Grande prof, questa è un’altra delle cose di te che suscita tutta la mia ammirazione, lo sai!
È molto intrigante anche il percorso di settanta chilometri in bici, che purtuttavia personalmente lascio ad altri ahah… Come si dice: largo ai giovani ehhh, ai miei trenta manca meno di un mese e i miei legamenti si avviano ad intraprendere un naturale processo di senectute… Forse giusto con un degrippante potrei pedalare per settanta chilometri, oppure mannò dai, perché provarci e uccidersi anzitempo in fondo. Anche se sono sicura che l'itinerario consigliato da Elisabetta sia bellissimo.

Che dire poi dei Giardini di Porta Venezia? La mia grandissima prof mi ricorda che ne dovrò parlare anch’io, prima o poi. Non ho occasione come lei di vederli tutti i giorni (e tanto meno attraversandoli in bici per i motivi di cui sopra!), ma sono un luogo al quale sono anch’io molto affezionata, con i suoi ippocastani e i sentierini sterrati, con la sua natura – come scrive la nostra Elisabetta – in mezzo alla città… E adesso, anche con qualche ricordo in più: i caffè bevuti con la mia prof sedute sulle lunghe e frequentatissime panche del Bar Bianco.

Ultima risposta: bè, per ultima non possiamo che lasciare il luogo del cuoricino di Elisabetta, come tutti i luoghi del cuore magari misconosciuto ai più ma così grondante di dolci ricordi, di esperienze di vita vissuta, di attimi speciali inanellati nel filo della nostra vita, a cui rimarremo sempre inevitabilmente legati, anche se sono passate delle stagioni, anche se alcune cose non sono più le stesse, anche se forse, crescendo, siamo cambiati noi… Ma certe cose, certe atmosfere, certi ricordi, certi luoghi, in tutte le loro irresistibili imperfezioni, rimangono scolpiti, incisi nel cuore, tanto da – anche se per un brevissimo istante di secondo – riuscire a tagliarci il respiro e farci balzare il cuore. È magia forse? No, è semplicemente la bellezza di Milano, e di certi suoi angoli divenuti per ciascuno di noi pezzo imprescindibile della nostra storia, quinta immancabile delle nostre vite e dei nostri momenti belli. La bellezza di Milano esperita e vissuta, come dicevo, col cuore aperto d’una persona positiva e sensibile come la mia prof Janko, che ci ha regalato un po’ di sé rispondendo a queste domande…

Prof cara, ma che dire? Grazie di cuore per aver partecipato e avermi concesso questo grandissimo onore!

Allora, lettori del bloggo: fatevi sotto! I prossimi protagonisti del giuocone sarete voi! Pronti a raccontarci cinque motivi per cui amate la città meneghina? Forza!

martedì 6 ottobre 2015

Rotonda di via Besana: luogo d'anime e luogo dell'anima

45°27'35.1"N9°12'20.2"E


Cari amici del bloggo, finalmente rompiamo il silenzio in cui siffatto spazio virtuale era piombato con un altro avvicente pezzo (?) tutto mediolano. Quando finalmente credevate d’esservi liberati di bugnato, –zac! eccola tornare all’orizzonte come la donzelletta leopardiana, con in dote il suo prodigo fascio di strùnzatelle meneghine.
Qual sarà l’argomento scelto per questo nuovo pezzo? Trattasi miei affezionati amici della Rotonda di via Besana, che costituisce un altro di quei luoghi milanesi singolari o per meglio dire davvero unici. È luogo, finché ho avuto modo di ‘viverlo’, di grandissima piacevolezza e quiete, a poca distanza dall’asse trafficato del corso di Porta Vittoria.  
La singolarità di questo complesso, dalla storia piuttosto travagliata, si può constatare già guardando le immagini offerte dal satellite di gùgol (queste diavolerie moderne), cui potrete rapidamente accedere facendo clic su quella sfilza di numeretti verdi che bugnato con tanta dedizione appone al di sopra di ogni suo post: ebbene no cari amici, non sono numeri per giocare al lotto, quelli fateveli dare dal bisnonno in sogno, ammesso che non vi preferisca un inviso cugino, e non sono nemmanco tirati a caso: sono le coordinate di longitudine e latitudine dei loci narrati in questo bloggo; pertanto quelli quivi vergati son esattamente quelli relativi alla Rotonda di cui stiamo parlando. Che è davvero rotonda: avete visto? Ma più che rotonda, essa possiede un recinto dal perimetro sì circolare, ma decisamente ‘mosso’, superbamente curvilineo, come se si trattasse di quattro morbide parentesi graffe congiuntesi. E al centro, in mezzo all’erba, si apprezza un edificio a croce, a x, di cui uora uora diremo.
Siete pronti per questo nuovo tour da seduti della città di Milano, miei cari lettori pigroni ché al massimo vi spingete all’Esselunga di viale Certosa per fare qualcosa di diverso? (Scherzo, i miei lettori sono tutti degli appassionati e dotti esploratori, tempo e lavoro permettendo! eccomunque, nel suo piccolo, anche l’Esselunga di viale Certosa…)

La Rotonda della Besana ha qualcosa di magico. È, come abbiamo preannunziato, un edificio del tutto particolare tra le architetture milanesi, un unicum decisamente degno di una visita. Questo suggestivo nucleo architettonico tardobarocco ha conosciuto nel corso della sua storia plurime finalità, vivendo tante vite quante sono state le sue destinazioni d’utilizzo. Una capacità reincarnatoria camaleontica, una stratificazione funzionale che oggi si avverte tacita, sopita nel suo portico circolare quieto e silenzioso.  
La Rotonda della Besana nacque infatti come cimitero, chiamato ad assorbire le spoglie provenienti dal vicino Ospedale Maggiore, antichissimo nosocomio mediolano che poi altro non era che l’edificio dell’Università Statale, la quale insomma come vedete faceva morti già da allora. Ecco cosa c’era sotto a quella innocua erbetta verde: le spoglie, si stima, di almeno centocinquantamila persone. Nel bel mezzo del foppone sorgeva la chiesa di San Michele, con la sua pianta a croce greca, sormontata da una cupola ottagonale: una distribuzione dello spazio differente rispetto alla stragrande maggioranza dei luoghi di culto cristiani, dotati al contrario di una pianta a croce latina provvista d’una navata principale più larga e lunga del transetto con cui si interseca. Questa inusitata forma architettonica, complice peraltro oggi l’assenza dell’altare, fa completamente smarrire all’osservatore un punto focale utile all’orientamento. Che è già una delle cose molto molto belle che si possono sperimentare alla Rotonda della Besana.
L’effetto che si apprezza ‘dal di dentro’, è infatti quello di una vertiginosa e serrata sequenza d’alte colonne scanalate, sormontate da capitelli decorati con ossa e quattro teschi l’una, ad alludere con immancabile spirto barocco alla destinazione originaria, cimiteriale, del complesso. Ma in verità a guardare in alto sembra quasi di muoversi dentro a un apparato osseo, nel gioco reiterato delle volte forate a forma di vertebre. In effetti ho sempre pensato che la Rotonda della Besana potesse essere inserita di diritto in uno scary tour della città di Milano, insieme ad esempio a San Bernardino alle Ossa, e alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, tanto per cominciare.

Verso la fine del Settecento, in conseguenza dell’ordinanza austriaca che prescriveva lo spostamento dei cimiteri al di fuori dell’area urbana, il complesso perse la sua destinazione originaria, la chiesa fu sconsacrata, e la Rotonda della Besana divenne, in successione, caserma, fienile e addirittura lavanderia dell’ospedale; finché, in epoca assai più recente, fu finalmente donata a tutti, adibita a spazio espositivo per belle mostre temporanee: uno spazio espositivo coi controcazzi, suggestivo e versatile nelle sue pareti chiare, spazio aperto trasformato e definito ogni volta in qualcosa di nuovo. E questa è stata la stagione della vita della Rotonda a cui ho più partecipato, affezionandomi molto ai suoi spazi e alla sua tranquillità.

Poi che accadde?
Accadde che qualcuno volle destinare questo edificio meraviglioso a divernir sede museale. E fin qui direte: bello. Bello sì. Che ci hanno fatto? Un museo d’arte moderna? Contemporanea? No? Un museo del design? No, esiston già del resto. Un museo di fotografia? Un museo della città? Un museo del bottone, dell’ombrello, del martello, del rastrello? Ebbene no miei cari. La Rotonda della Besana è divenuta sede del MuBa, ossia il Museo dei Bambini (nooooooooooooooooooo!); il che mi ha naturalmente inibito dal farvi ritorno.
Cioè attenti bene: non un museo sull’infanzia, cosa che sarebbe stata senz’altro interessante, se non altro perché siam stati tutti dei nani cagaminchia felicemente liberi dal lavoro e dalle altre tragedie della vita adulta, no, proprio un ‘museo’ per i bambini (a questo punto però qualcuno mi spieghi perché chiamarlo museo, di grazia, quel poco di lingua italiana che conosco non mi aiuta a trovarvi una logica). Praticamente un luogo ove concentrare una serie di attività destinate ai più piccoli, attività didattiche, di gioco, di scoperta. Una cosa caruccia, certo (ma come battere l’appeal del museo del rastrello?), però… non qui. Eddai, alla Rotonda della Besana? Un luogo unico e affascinante come questo? In un ex cimitero coi teschi che guardano dall’alto i vostri piccini? Date loro un’aula della Triennale, perdio, son tutte quasi vuote, e poi vicino c’è pure un bel parco, così dopo che i mocciosi han finito di fare i piccoli adulti al banchetto possono correre al parco Sempione a fare le peggio fantastiche cose che fanno giustamente e naturalmente i bambini quando si sciamannano all’aperto. Che poi ogni museo di Milano possiede già e meno male, ché sennò sarebbe una lacuna e son seria, degli spazi destinati ai piccini in visita: il Castello Sforzesco, il Museo della Scienza e della Tecnologia, quello del Novecento, quello meraviglioso in corso Magenta, il mio adorato Museo Archeologico, dove i bimbetti possono improvvisarsi archeologi alle prese con scavi stratigrafici, scoperta e catalogazione di reperti… E mi fermo qui ma l’elenco potrebbe continuare.
Insomma, questo mi pare un ulteriore, drammatico e discutibile segno della bambinizzazione di Milano, probabilmente con la convinzione già descritta dal buon Louis CK secondo cui “Every child is a star beyond the shiny sea”. Ora, io mica voglio luoghi dove l’accesso sia consentito solo a gente uguale a me (“Accesso riservato ad analfabeti di ritorno con lavori dimmerda”), sia mai, anche perché chissà che brutta umanità vi si incontrerebbe, uh, però buondio, tutto questo spazio destinato esclusivamente signori, è questa la parola chiave per capire lo sdegno di bugnato, esclusivamente a famiglie e mocciosi in luoghi unici, come la Rotonda della Besana e il giardino della Gam, unici signori!, che dovrebbero essere di tutti e per tutti inizia francamente ad essermi indigesto.

Quindi: ricordiamo i bei tempi che furo. Quando la Rotonda della Besana la si sceglieva come meta prima o dopo una passeggiata in centro, per darsi appuntamento, per leggere sulle panchine che corrono lungo il suo meraviglioso porticato silenzioso, scandito da una sequenza dolcemente ondulata di colonne, per chiacchierare o per ascoltare musica, o ancora per godere della frescura dei suoi spazi, preziosamente ombreggiati anche in piena estate. E poi ricordo le belle mostre che vi ho visto: tra queste, quella splendida e ricchissima di Bruno Munari e quella, una vera sorpresa, del pittore bosniaco Safet Zec, con i suoi quadri dalle tinte accese ma agrodolci, nelle sue composizioni malinconiche quando non dolorose, capaci di raccontare in modo assai poetico le ferite dell’abbandono e dello scorrere del tempo, non solo sulle persone, ma anche sulle cose, sugli oggetti…

Insomma, a questo edificio così bello, così tranquillo, luogo d'anime per la sua storia e luogo dell'anima nella mia storia, mi legano vari ricordi: le immagini delle mostre viste da sola e in compagnia, la sorpresa e la commozione esplosemi nel quoricino per la sua deliziosa e perfetta bellezza, il rinnovato stupore, ad ogni visita, per la sua monumentale originalità e per la sua storia, passata, di camposanto protetto dal suo dolce recinto privo di angoli. Alla Rotonda della Besana ho trascorso tanti momenti piacevoli, ho lasciato scorrer via in chiacchiere lenti e oziosi pomeriggi primaverili e ho officiato i funerali laici d’un piccione trovato morto nel portico, raccogliendo per lui una margherita e affidandolo alle amorevoli cure del luogo. Che in fatto di cura d’anime, di certo, se ne intende.


Il dettaglio da non perdere
[Epico ritorno della rubrichetta del a chi vuoi che gliene impipi]
Ora, anche se non siete bambini, o lo siete inside ma la cosa non è provabile perché comunque sia la vostra carta d’identità dichiara per voi tutt’altro, io credo non si possa negare anche a chi non gode dello stato d’infante di fare almeno un giro attorno a quella che fu la chiesa di San Michele. E appunto: non perdete assolutamente, oltre alla meravigliosa simmetria della struttura, sormontata dal suo esile e sottile campanile, l’elemento architettonico decorativo ellittico nonché assai grafico che sovrasta la porta d’ingresso, bordato, come portone e finestre, da un bel fascione  color crema: ripetuto per sottrazione (è, difatti, un buco) anche all’interno, nello spazio tra una colonna e l’altra, è una sorta di vero e proprio marchio di fabbrica dell’edificio, ornamento modernamente stilizzato dello stile barocchetto che lo informa.

domenica 9 agosto 2015

Us and them – Piazza degli Affari, Borsa di Milano e dito medium

45°27'53.5"N 9°11'01.2"E


Dunque, coloro i quali sono ormai affezionati lettori di questo bloggo (cioè io e il mio cane) e sono quindi entrati nell’ottica, enunciata dal titolo, del racconto di quella Milano che, al contrario, esprime verità, rimarranno sorpresi nell’apprendere quale sarà il tema di questo post. Ciò di cui stiamo per parlare non è in effetti quanto ci si sarebbe aspettati di trovare in questo bloggo, tra le piccole grandi perle di questa città tanto care al quoricino di bugnato.
E questo perché, miei fedeli, stiamo per parlare, ebbene sì, di piazza Affari e del palazzo della Borsa di Milano. Booom! Non ve l’aspettavate, vero? C’avete pure ragione, ma nelle righe che seguiranno vi appariranno più chiare le ragioni per cui ho deciso di narrare questo luogo (e comunque io non ho nessun cane).

Ma andiamo con ordine. Piazza Affari, come è usualmente, giornalisticamente appellata, non si chiama così in realtà. Il toponimo esatto, riferito certo non alle attività borsistiche ma alla sede fisica ove esse avvengono, scritto nero su bianco sulla lastra di marmo leggibile in loco, è piazza degli Affari; con quella preposizione articolata che, bella serafica, ci racconta come in questo luogo si ‘facciano affari’. O meglio, più esatto, come qualcuno faccia affari. E mai come ora, visto che son questi gli anni in cui il neoliberismo ha vestito il capitale d’un volto finanziario, facendo della borsa – e non delle fabbriche, il che è ancora più inquietante – il suo laboratorio produttivo – ammesso che per l’appunto, in questo decennio di delocalizzazioni prima e desertificazione industriale poi, sia ancora lecito, parlando di economia, adoperare la definizione di ‘produttivo’. Insomma, una di quelle borse che si rassicurano nel saperci più poveri, reagendo a notizie tragiche come licenziamenti, tagli di salari e austerità con rialzi d’eccitazione perversa. Insomma, c’è parecchio di spaventoso in tutto ciò.

Ora, viste le debite premesse, diciamo la verità: per qual motivo pellegrinare verso piazza Affari, recandosi al cospetto del Palazzo della Borsa Italiana, anche detto Palazzo Mezzanotte dal nome dell’architetto che, nel 1931, lo progettò, e per di più menandovi in visita pure dei forestieri, come ho avuto l’onore di fare? Noi anagraficamente adulti (ma solo anagraficamente) che non abbiamo ancora superato la fase escrementizia, ci si va, ammettiamolo, solo per vedere il tanto discusso ditone medio, la scultura intitolata, assai ironicamente, L.O.V.E. Quanto ci piace il ditone di Maurizio Cattelan. Che sarà anche un furbastro, però è un furbastro molto simpatico. Sicché ci si va, in piazza degli Affari, per vedere il ditone che la Borsa ci pianta in quer posto. Che poi a guardarlo non è che la mano proprio alza il medio, gli è che ha le altre dita mozze; come a dire no ecco vedi, noi non vorremmo sfruttarvi, ridurvi alla fame e nel contempo arricchirci, ma vedi, non ci possiamo fare niente, è andata così, ma ti giuro che io non volevo, questa Mercedes, credimi io non la volevo. Insomma, il medio media tra noi e loro. Us and them. Come diceva lo zio Roger. Loro, noi e il medio in mezzo, in un messaggio che appare perfettamente intelligibile. Benché grossa, non è decisamente una mano che ci darà una mano questa. È una mano che dà tutt'altra idea, e appare pronta e capace, nel suo gigantismo, a prevaricare, e uso il termine ‘prevaricare’ giusto per non esser volgare. E pensate, le basta solo un dito! Insomma, qua il medium (è proprio il caso di dirlo) è esattamente il messaggio, per citare il sociologo avente il nome d’un amplificatore e per cognome McLuhan.
Per cui perché non andarci, via, sono pure ammessi i selfie di gruppo col medio alzato (ma senza bastone, vi prego: andiamo suvvia, l’umanità ha compiuto la sua strepitosa evoluzione e noi la buttiamo nel cesso con questa prolunga per scemi?), buontemponi che non siete altro, e del resto l’ho fatto pure io, ma mica con quattro amici zozzoni, bensì con la mia dolce famigliola (benché a onor delle cronache la mia composta mammina si sia astenuta dal gestaccio). Ora, quale momento migliore della giornata per darsi a queste buffonerie? Ecco, io sconsiglierei di raggiungere piazza degli Affari di giorno, sortita che si rivelerebbe un po’ amara e pure poco entusiasmante, vista la quota di piantoni e di gommini del tergi regimental vomitati fuori dal palazzo della Borsa, con le loro gambine sottili da cavallette. Avete fatto caso che questi personaggi son sempre alti e stecchi?
Ma di sera è tutta un'altra cosa. Il suggerimento è quello di arrivare da via San Maurilio, sfidando le asperità del pavè. Per vedere schiudersi allo sguardo una prima, parziale visione della piazza, inquadrata suggestivamente tra gli archi dell’edificio di fronte a Palazzo Mezzanotte, che creano quasi, nella luce della sera, uno scenario metafisico. E passo dopo passo, nell’inconfondibile luce calda gialla della notte milanese, ecco schiarirsi e definirsi le linee, quelle decò del Palazzo della Borsa (benché montate su un impianto di neoclassicismo semplificato che fa subito ventennio), tra semicolonne, fregi, le statue imponenti e massicce e naturalmente il ditone di Cattelan, che conserva anche in ore tarde il suo stupefacente biancore marmoreo, con le belle vene che lo attraversano, notazione anatomica esatta per un’opera che, in macro, evoca formalmente una rinascimentalità toscana, e non solo per l’impiego del marmo carrarese.

E quindi eccola la piazza: sgombra, vuota, deserta, coi piantoni che ci saranno pure sottoforma di occhi meccanici ma che almeno non si vedono, muta nelle architetture che la delimitano, e che offrono le loro facciate immobili allo sguardo e alla meraviglia dell’osservatore. Già, meraviglia, anche qui. Anche qui, anche se si è in piazza degli Affari e c’è puzza di merda, ma la bellezza malinconica di questo posto, che può essere bello solo di notte e mai di giorno, nella salubre pausa notturna dal viavai dei loschi personaggi che se ne appropriano, appare nitida, irrevocabile, insindacabile.
Ma la visione davvero forte cui è dato di assistere di notte in questo pezzo di città consacrato agli ‘affari’, affari sempre di qualcun altro, è la presenza, consuetudinaria e stanziale, di barboni. Sì, barboni. Senzacasa, clochard, chiamiamoli come ci pare. Down and out, it can't be helped but there's a lot of it about. Barboni, persone che vivono in strada. E che scelgono questo posto per la loro notte. Per dormire. Per vivere, per campare sotto alla luna. Come se s’affrontassero, nello spazio di cento metri, i due poli parossistici d’un sistema che ci impone un prezzo altissimo da pagare. Quello del finanzcapitalismo, la finanza liquida per non dire gassosa, fatta d’indici, di speculazioni finanziarie, sempre più lontana dall’economia reale e dalle tradizionali forme produttive su cui il capitale prospera(va), incarnata dal palazzo della Borsa di Milano, fabbrica di sperequazioni sociali e di sofferenze, per nulla gassose ma concrete e materiali; e quello della povertà nel suo volto di miseria senza più domande, ripiegata a testa in giù e premuta contro le vetrine delle banche che affollano le vie circostanti, quasi un EUR mediolano, nelle loro roboanti architetture fasciste. Due poli opposti d’un sistema con in mezzo, dicevamo, a mediare, il dito medio.
Il colpo d’occhio che abbraccia il palazzo della Borsa e queste presenze è notevole, logico e irreale al tempo stesso, come se un fumettista avesse voluto condensare nella stessa striscia la raffigurazione di fatti, eventi, situazioni legati tra loro da un nesso causale, ma senza mostrare lo srotolarsi delle singole connessioni che, da un polo, hanno condotto all’altro. Alla sua conseguenza. Dalla finanza alla miseria, bellezza, e te lo mostro tutto in un’unica inquadratura. Milano è capace di darti anche questo.
Questo ma non solo questo: perché è proprio grazie alle uniche presenze vive d’una piazza silenziosa e immobile, a questi tristiallegri derelitti che pasteggiano con vino, accampati sotto i portici, a dirsi qualcosa o a bere o a dormire, o a fare tutte e tre le cose contemporaneamente, che, in un’ottica sanamente ribaltata, piazza Affari diventa altro. Un altro palcoscenico, in cui si proiettano vite vere. Nei banchetti rimediati, nei sonni di sasso, nelle frasi scambiate arredando di sporte di plastica, coperte e cartoni il loro appartamento comune a cielo aperto affacciato su Palazzo Mezzanotte, costoro dimostrano di saperla lunga, con la conquista di questo rettangolo di Milano di cui la notte – almeno la notte e solo la notte – divengono legittimi proprietari. Luogo dove dormire, mangiare, parlare, pisciare. Facendosi beffa superba della Borsa, dei controlli, dei piantoni, delle telecamere, dei cartelli di proprietà privata e di sosta vietata sotto a cui dormono i loro sonni, e pure del dito medio. Un luogo che grazie a queste presenze si fa più accogliente, caldo, autentico, nostro insomma e non solo di chi, di giorno, lo anima con la sua discutibile presenza. Ed è solo grazie a queste presenze reali, in carne e ossa, proprietarie di questo pezzo di città per una manciata d’ore della notte, uomini veri e non ombre d’una umanità evanescente asservitasi al capitale, che piazza degli Affari recupera la dignità di luogo milanese vero, di persone vere, luogo senza colpa e senza bugia, dalla bellezza priva di macchie e di venature ambigue.

Questo è il motivo per cui, visto a mezzanotte, Palazzo Mezzanotte compare in questo bloggo, perché fermo nei suoi meccanismi e nei suoi ingranaggi meschini, strappato anche se per poco ai suoi manovratori, spogliato della menzogna e recuperato bello, limpido, corrusco.  E, in attesa di fare la Rivoluzione, come ripeteva sempre il libraio ambulante amico del topo Firmino, in una fugace ma epica rivincita sotto la luna, può veramente diventare nostro, sottratto a loro almeno per qualche ora.   










giovedì 30 luglio 2015

RdP – Metti una mattina alla Scala: la prova generale del factotum di Siviglia

Avviso alle anime sensibili: questa nuova puntata della rubrica del piccione è paesanona assai. Ma proprio assai. Ma proprio paesanona eh, intrisa di quell’entusiasmo paesano del villico che vede per la prima volta la città rimando abbacinato dalla sua grandeur.
Ciò di cui Ambrogio ci aiuterà a dire, infatti, riguarda la mia prima volta alla Scala, il supremo tempio scaligero dell’opera lirica. In ventinove, onoratissimi (?) anni di vita mediolana, infatti, ebbi modo di solcare quel portone sono alle elementari, in gita scolastica: alta quanto ora, visitai in realtà il Museo Teatrale della Scala di Milano, beandomi dei suoi ambienti carichi (già allora, come vedete, il gusto per il barocco…) e delle avvincenti storie legate al mondo dell’opera e dei suoi sublimi interpreti, grazie a una guida ganzissima che non lesinò a noi marmocchietti dettagli splatter tipo i capelli grigi di Chopin intecati (vero, nulla di splatter, ma c’avevo otto anni e che si potessero conservare i capelli d’un morto non l’avevo pensato) e la testa del verme solitario che la Maria Callas deglutì con un bel bicchiere d’acqua nel tentativo di dimagrire, in un momento in cui era un po’ tracagnotta, con tutti i disagi che tale sovrappeso poteva causare a una diva molto attenta alla propria immagine oltreché alla propria arte. A pensarci bene nemmeno questo è splatter, del resto chi di noi non ha mai pensato di brindare con una tenia? Molti di noi lo avranno anche fatto, non negate.
E chiuso il filone splatter la buona guida aprì quello tragico-tristone: parlandoci di Verdi, grandissimo protagonista della storia della Scala, che ideò la melodia malinconica e dolcissima del Va’ pensiero ancora addolorato e sconvolto dalla morte, avvenuta nel giro di pochi mesi, della moglie e dei suoi figlioletti. Evocando infine la morte del Maestro, allorquando i milanesi cosparsero di paglia le strade del quartiere ove egli risiedeva, onde non turbare, col rumore irrispettoso delle loro carrozze, l’ultimo viaggio dell’illustre e amatissimo concittadino d’adozione… Perbacco, che allegria queste gite scolastiche! Scherzo naturalmente, il ricordo dopo decenni quasi secoli da quel dì è ancora vivido, il che attesta che l’uscita fu ben congeniata; io la rimembro come una delle più interessanti di sempre, impreziosita peraltro, oltre che da una bella sosta nel solenne foyer del teatro, tutti seduti per terra, come usa con le mini scolaresche, da un rapido ma stupefacente affaccio da un palchetto della sala: oddio che meraviglia! Che ambiente maestoso si aprì al mio sguardo di moccoletta!
E la vostra bugnato deve aver conservato un (bel) po’ quel cervellino lì, se nell’occasione della sua entrée alla Scala come spettatrice d’opera lirica ha mantenuto eguale livello di stupitissimo stupore.

Ma com’è successo che bugnato, quella bugnato che piangeva lacrime di coccodrillo preparando all’ultimo i suoi compiti di musica mandando a memoria un testo del conservatorio, è approdata sin qui, nel blasonato cuore meneghino della lirica, l’elegante edificio neoclassico di Giuseppe Piermarini, scatola grandiosa d’un interno sfavillante?
È accaduto che in famiglia s’ottennero fortunosamente dei biglietti per assistere alla prova generale del rossiniano Barbiere di Siviglia nell’allestimento storico di Jean-Pierre Ponnelle e nella direzione orchestrale di Massimo Zanetti.
Si poteva forse dir di no ad una occasione sì succosa? E la sugosità del tutto, mi si permetta di dire, al di là della superba opportunità, è stata per me rappresentata dalla possibilità d’assistere proprio ad una prova, di mattina, non dunque nel canonico orario serale delle messinscene. Un appuntamento informale dunque, come piace a me, più vero forse (e solo il cielo sa quante implicazioni si inneschino nel definire vero uno spettacolo teatrale – solo il cielo e pure chi ha preparato un esame di teatro mon dieu!), non ‘ufficiale’ dunque ma con intatta tutta la solennità d’un appuntamento al Teatro alla Scala. E infatti è stata una mattinata bellissima.
Caso fortunaterrimo ha voluto, peraltro, che il posticino rimediato per me fosse ubicato in un palchetto, gesù, un palco di proscenio, il primo del second’ordine. E signori miei, mai spettacolo avrebbe potuto per me essere emozionante. Il velluto rosso, le sedie (tutte meravigliosamente scompagnate) con il profilo degli schienali dorato, la carta da parati damascata, la porticina chiusa alle mie spalle e, davanti a me, l’ambiente fantastico della sala, l’imponente lampadario, la buca dell’orchestra e il palco. Vicino, vicinissimo, tanto quasi da poter scorgere il battito di ciglia degli interpreti, e ogni sfumatura della loro espressività.

Ora, che aggiungere? Poco altro, essendo io né una melomane né un’esperta. Ma ai miei occhi e alle mie orecchie profane lo spettacolo è risultato divertente, scoppiettante, strepitosamente godibile e bello. Bello, veramente bello. Bravi gli interpreti, espressivi, appunto, a cominciare dal mattatore Figaro, il proraso di Siviglia, un carismatico baritono settantatreenne, ci dice wikipedia, dotato d’una energia di cui io neanche la metà, e nei giorni buoni eh. Divertenti tutti, belle le donne in scena (non esattamente le classiche soprano di mezza età simpaticamente barilotte), irresistibile il servitore Fiorello, un basso cinese, e fantastica e fiabesca la scenografia e i suoi meccanismi (segnalo peraltro la presenza in scena d’una sedia a dondolo Thonet uguale a quella che abbiamo in casa – ed era proprio quella infatti, tornando a casa non l’abbiam trovata più ahah). Eppoi bella, leggera e guizzante l’opera di Rossini (con un Anello del Nibelungo sarebbe andata peggione credo), l’opera italiana più rappresentata all’estero per i suoi meccanismi musicali e comici esplosivi; una storia in fondo classica, fors’anche banale, fatta d’un amore avversato, di equivoci, inganni e travestimenti, di riconoscimenti e agnizioni, ma anche di idee geniali (qui partorite dal factotum della città), per consentire ai due amorosi di coronare il loro sogno d’amore, con un occhio disincantato al potere sommo del vil danaro. Insomma, quasi degli archetipi di storie, dei topoi, degli ingredienti ricorrenti, delle carte di Propp; ma d’altra parte le carte bisogna pure saperle giocare. Rossini le ha giocate in maniera eccelsa, intessendo una trama musicale brillantemente architettata, capace di tenere alta, coi suoi salti e le sue ricche invenzioni, l’attenzione dello spettatore, sino al finale. E la regia qui ha fatto altrettanto, confezionando un’opera moderna, piena di momenti sapientemente spassosi grazie al grande talento degli attori in scena, che ho avuto modo di osservare da un’angolazione molto più che privilegiata… Dalla mia posizione ho avuto anche la meravigliosa opportunità di seguire il grandioso lavoro dei musicisti e del direttore d’orchestra, secondo polo d’uno spettacolo, quello lirico, che è bicefalo, partorito dallo sguardo registico e dal tocco del maestro. E guardare l’orchestra, quel giorno ‘in borghese’, adagiata nella sua buca, è stato una sorta di secondo spettacolo: è stato molto facile farsi rapire dagli sforzi dello scapigliato e compenetrato direttore, e, io che so suonare giusto il citofono, dalla bravura dei musicisti, peraltro sbarbi assai, dalle mosse esatte e repentine delle mani sugli strumenti, nonché, visione veramente ipnotica, dal movimento ritmico e perfettamente sincronizzato degli archetti sulle corde degli archi. Pura meraviglia. Pura meraviglia stare là, affacciata al palchetto, riconoscere i miei gengis in platea e assistere alla mia prima opera lirica… v’avevo detto che sarebbe stato un post paesanone! Peccato solo non avere con me la mia fida reflex, cosa che ha fatto sì ch’io mi riducessi a scattare foto paesane in modo paesano, con l’aifon, con i risultati paesani che potrete apprezzare. 
Ad ogni modo, volete mettere l’emozione? D’un sabato mattina di luglio, in una Milano bellissima e assolata (mitigo ma ci sarebbe da parlare di caldazza, ma comunque), in compagnia dei miei eleganti gengis, con una visuale stupenda e nell’ambiente magico d’un palchetto del famosissimo e blasonato Teatro alla Scala di Milano, a seguire un’opera lirica frizzante e briosa (mica l’epica tetesca barbogia di Wagner). 
Veramente una grossa fortuna (mammina, hai visto, non ho scritto culo!) questa mia prima volta alla Scala… Grossa fortuna e immensa, stupita (paesana) meraviglia negli occhi, nel cuore e nelle orecchie. D’altra parte, si dice, e sarà pur vero, che la prima volta non la si scorda mai.





martedì 7 luglio 2015

Voi, Milano e ciascuno di voi/Partecipante n°4: Marina

Se mi fosse dato – e per una verbosa come me sarebbe un’autentica tortura – di scegliere un solo aggettivo per definire Marina, la nostra quarta partecipante al giuocone (hey, fermi tutti: davvero quattro e dico q-u-a-t-t-r-o persone si sono prestate ad assecondare le mie turbe psyco-meneghine? gesù!), l’aggettivo che sceglierei è: sorprendente.
Sì, perché Marina è esattamente così. La sua capacità di sorprendere non è superficiale, patina posticcia con cui certe persone finto-originali cercano malamente di incipriarsi, rivestimento sottile che il più delle volte nasconde vite assai ordinarie, e pure mediocri. No, Marina ti sorprende con la sua intelligenza riflessiva, che cela al contempo un turbinio di pensieri, idee, progetti. Un fuoco d’artificio di racconti sorprendenti, appunto, di esperienze, di viaggi, di cose viste e vissute, che ha attraversato con lo sguardo e lo spirito di chi cerca di imparare e trattenere sempre qualcosa da ogni contesto. Con curiosità. Con voglia di apprendere, di mettersi in gioco. Misurandosi ogni volta in qualcosa di nuovo. Provvista d'uno sguardo attento sulle cose del mondo, sia lontane che vicine, ha saputo cimentarsi in frangenti e situazioni molteplici, manifestando dunque una certa, sanissima allergia a qualsivoglia fossilizzata staticità.
Ricordo il pomeriggio in cui, davanti a un cappuccino per me e a una spremuta d’arancia per lei (ma se la inviterete al bar, sappiate: per lei la spremuta è solo d’arancia rossa!), mi ha raccontato le sue passate esperienze lavorative: chezz, a un certo punto ho pensato che all’elenco mancasse solo il domatore di leoni! Marina mo nun ce dire che hai fatto pure quello!

Insomma, una persona curiosa, attiva, e pure creativa signori. Ha frequentato un corso di ceramica, realizza dei bijoux dolcissimi e pieni di poesia (vedere per credere), e, soprattutto, è operatrice qualificata shiatsu. Anzi, se qualcuno vuole aggiustarsi qualche incriccamento ricorrendo a una disciplina così nobile, antica e affascinante (che – mi cospargo il capo di cenere – poco conosco ma quel poco lo devo a lei) nonché soprattutto affidandosi a mani esperte e, risottolineo, qualificate, questa è l’occasione signori miei (Marina, non ci sperare, ‘sto bloggo lo leggo solo io!).

E quindi, avendole parlato di questa mia creatura virtuale e avendo fatto accenno al giuocone delle cinque domande, ho notato in lei accendersi una curiosità assai benevola nei confronti e del bloggo (grazie per la pietas, è pur sempre un epico sentimento dei nostri Avi) e del giocone, che ha considerato idea carina per, in fondo, parlare di Milano, facendo il punto su ciò che, di questa città – di cui è anche lei esploratrice indefessa ed estimatrice – amava di più. Ciò a cui era più legata. Anche perché, come vedremo, l’universo della lettura-scrittura non le è affatto estraneo. E vi pare che una persona come lei non poteva gettarsi con vitalità e passione in questa nuova, piccola sfida?
Tra il lavoro – esperienza che condividiamo quotidianamente: è mia collega! –, un giretto da turista nella propria città, qualche superviaggio all’estero, una pappa data alla sua coniglietta Penelope e molto altro, ha trovato modo di dedicare del tempo a questo gioco, a questo bloggo. A me, e la ringrazio tantissimo. E anche un po’ a tutti voi, pochissimi ma buonissimi che leggete. Perché – ricordatelo – chi si racconta in queste pagine rispondendo alle cinque domande, regala un po’ di sé stesso… ci fa un regalo. Anzi cinque.

E allora, andiamo a scoprire proprio cosa ha scritto la nostra Marina.


Ecco la mia personale classifica. Sicuramente riflette in parte gli umori del momento. Sono sicura che magari tra un anno risponderei in modo completamente diverso (ad eccezion fatta per il luogo del cuore che rimarrà sempre lo stesso…. altrimenti che luogo del cuore sarebbe?!)

1.
Il luogo preferito

Apprezzate la grafia magnificamente scapigliata di Marina!

Parco Sempione, ebbene sì. Un pezzo di verde nel centro della città. Un’oasi tra i bei palazzoni d’epoca del centro e il Castello con la mitica biblioteca dove spesso si andava a studiare nel tempo che fu.
Per i milanesi l’evoluzione poi non è stata da poco. Da luogo principe per tossici e spacciatori, con tanto di prato spelacchiato pieno di suonatori di bonghi un po’ fatti si è trasformato in un gran parco con abbagliante ghiaietta bianca e cespugli rigogliosi e decorativi. Rilassante.

2.
Il luogo del cuore
P.za Perrucchetti. È la piazza dove sono nata e dove ho vissuto fino ai sedici anni. Il ricordo è struggente e mi capita di tornarci solo per nostalgia e per ripensare a quegli anni. Rivedo mia mamma avvolta nella nebbia che aspetta alla fermata della 67 per andare al lavoro, io e mia sorella che ci avviamo a piedi con nostro padre verso la scuola, la mia amata nonna che abitava nel nostro palazzo e con la quale si andava ai giardini nel pomeriggio, la chiesa dove ho preso (mio malgrado) i sacramenti, la nevicata dell’85 con la statua del soldato ricoperta da un metro di neve, i militari della caserma S. Barbara (tantissimi allora) che erano in libera uscita e ciondolavano in gruppo senza una vera meta, la barista sotto casa che ci ha regalato i dischi del suo jukebox quando ha deciso che era ormai finita l’epoca della musica a gettoni.

3.
Il pezzo da novanta
Allora confesso che la prima cosa che mi è venuta in mente è stato il nostro Duomo. Dico ma chi ce l’ha una cosa così…… el Domm de Milan è proprio unico, poi però riflettendoci e anche pensando all’ingombro notevole di averlo fuori casa (ih ih) mi sono “ridimensionata” e ho concluso, dopo attento rimuginio sulle molte bellezze tra le quali scegliere e dopo che mi si era accesa una piccola lampadina che io, zitta zitta, mi porterei a casa il Cristo morto del Mantegna, custodito nella pinacoteca di Brera. Non è molto allegro lo so ma è talmente potente e impressionante guardarlo che tenerlo sulla parete di casa non mi dispiacerebbe proprio anzi insomma farebbe sicuramente un gran figurone.

4.
Il luogo più sbalorditivo
Nei miei vagabondaggi di studentessa poco volenterosa e quindi bigiosa, mi è capitato casualmente di scoprire l’ossario di San Bernardino alle Ossa, posto assolutamente oscuro e silenzioso pur trovandosi nel caos del traffico cittadino. La mia anima dark ne è rimasta affascinata e intimorita allo stesso tempo. Mi sono immaginata i tempi del Manzoni, la peste (ma non si sa davvero chi siano quei morti credo!) e quei teschi, quelle ossa che non hanno trovato altro riposo se non stare tutti insieme e per sempre a testimonianza della durezza della vita e della morte.

5.
L’itinerario che suggerisci
Tram 19 – sono anni in realtà che non lo prendo ma penso che non ci sia niente di più piacevole del guardare le vie di Milano da un bel tram sferragliante. Intendo naturalmente quelli arancioni (o meglio quelli che erano arancioni e che adesso hanno assunto i mille colori, tuttavia non sgradevoli, delle pubblicità), piccoli, rumorosi, con gli interni di legno e le lampade di vetro. Il percorso che fa suggerisce qualcosa di Milano: il naviglio poi fino a piazzale Baracca e avanti verso fiera e corso Sempione, per dirigersi speditamente verso quella periferia che una volta mi sembrava lontanissima e triste e che adesso trovo invece familiare e allegra: quella di piazzale Accursio e del Portello.

***

Cavolacci ragazzi, ma che emozione!
Che dire? Il parco Sempione è veramente un gran parco: uno spazio verde prezioso e ossigenante, il cui tappeto erboso prende avvio, senza soluzione di continuità, dal nostro Castello; non è poco per una città come Milano avere un parco così, in pieno centro.
Dopodiché l’ossario di San Bernardino, di cui si è già parlato qui, che purtuttavia dimostra d’esser luogo conosciuto e frequentato dalla nostra Marina ben prima che io ne scoprissi l’esistenza con la superdritta della mia zia! Insomma, qua Marina è stata una vera pioniera. Ed in effetti è davvero uno dei luoghi più sbalorditivi di Milano… E a pensarci bene: siamo sicuri, solo di Milano?
Eppoi… il Cristo morto del Mantegna, col suo corpo gonfio e illividito, le sue braccia lunghe, inquadrato in un taglio visuale quasi cinematografico: una vera perla di Milano, ma ciò che è davvero fenomenale è che, come avrete visto, da oggi niente più code in Pinacoteca e deca sganciati in biglietteria cari amici, basterà autoinvitarsi (elegantemente, mi raccomando, non siate i soliti grezzoni!) da Marina per gustarlo nel suo soggiorno! E nel pezzo da novanta, come darle torto, fa una comparsina pure il buon vecchio Domm, con tutta la sua potenza, già indicato, ricorderete, dal nostro Pinco.
Ma veniamo alla domanda namber faiv: il giro a bordo del tram. 19. Bingo. Questo itinerario coglie perfettamente, meravigliosamente, lo spirito della milanesità: nella risposta di Marina c’è tutta la bellezza di questi tram con la livrea arancione, vecchissimi (e caratteristici) in mezzo a tanta cangiante modernità, che sfrecciano per le strade d’una città in continua evoluzione (con, farei notare, il sempre fondamentale Portello)… Ganzissima Marina ad averci pensato!
E in ultimo… il luogo del cuore. Marina qui ci srotola un nastro ad impressione cinematografica, in cui si susseguono dolci immagini estratte dalla memoria… Veramente commovente ed emozionante. Con questi aneddoti e con tutti questi quotidianissimi ma proprio per questo toccanti e speciali ricordi, come si fa a non eleggere tale piazza a proprio luogo del cuore? Sono sicura che se qualche lettore del bloggo dovesse capitare in piazza Perrucchetti non potrebbe fare a meno, da ora, grazie a questa testimonianza, di guardarla con un senso di affettuosa benevolenza… che poi è in fondo proprio lo scopo di questo umile giuocone.

E allora come non ringraziare, e di cuore, Marina, per aver condiviso con noi tutte queste ‘narrazioni’ e queste cinque, differenti declinazioni del sentimento per la nostra città, Milano?
Grazie infinite Marina! Ah, e stasse tutti da te a vedere il Cristo morto!

E voi, lettori moltitudinari (?) del bloggo, maccome, ancora non vi siete cimentati in Voi, Milano e ciascuno di voi? Cosa state aspettando? Vi attendono ricchi premi orizzonti di gloria, ricordatelo! Forza, avanti il prossimo!

giovedì 25 giugno 2015

RdP – Incontro a Milano con Juan Carlos Monedero: Los reyes me gustan solo en los cuentos

Cari amici del bloggo, eccoci a una nuova puntatona della nostra rubrica del piccione, che intendiamo iberizzare per l’occasione in El rubro de la paloma, in quanto ciò che stiamo per raccontare ha a che fare proprio con la España. Ma come, qui, a Milano? Ebbene sì.

Che ci racconta il piccione Ambrogio, cos’ha visto con quei suoi occhietti persi?
Ci racconta d’un incontro occorso pochi giorni fa in quel della Fondazione Feltrinelli, sita in via Romagnosi, traversa di via Manzoni lato Teatro alla Scala, per raggiungere la quale si effettua insomma già una una piacevole camminata per le vie della città mediolanense. Protagonista dell’iniziativa era Juan Carlos Monedero, madrileno, ideologo e fondatore del partito di Podemos. Insomma, avrete già capito perché si trattava d’una cosa imperdibile.
E valore aggiunto dell’iniziativa era la presenza d’un moderatore d’eccezione, come recitava la locandina dell’incontro “sociologo presso l’Università Bicocca di Milano”, ma anche grande amico del mio cognato, una di quelle splendide e rare amicizie che si nutrono d’una felice comunione di idee, pensieri, militanza, quelle amicizie che riescono meravigliosamente non solo a sopravvivere ma proprio a vivere, nel corso degli anni, anche se i protagonisti hanno magari mutato – tra lavoro, luoghi, famiglia – le condizioni di vita in cui l’amicizia era primigeniamente nata. Ma in effetti, a meno che non siate degli strunzi, è molto difficile perdere l’amicizia del mio cognato, che è persona attenta, altruista, generosa. Quanto al nostro ricercatore, si può dire che, anche nella dimensione d’un incontro fugace, ne apprezzerete a pieno la genuina comunicatività, l’empatia, la voglia sincera di sintonizzarsi sull’altro. Ottime premesse insomma per affinare il naso e la vista d’un sociologo.
Peccato solo che, nella grande, fluviale, positiva facondia del buon Monedero, lo spazio per i comprimari moderatori del dibattito sia stato un po’ risicato; ma dal quel poco è ugualmente brillata la qualità dell’intervento del nostro.

Ma andiam con ordine. 
Appuntamento alle 17.20 (non e un quarto o emmezza, proprio e20, badate) con i miei soliti, fantastici sodali, i miei compagni d’avventura, per prepararsi alla traversata della città via metropolitana. Ci si saluta, si cazza allegramente e c’è tempo pure per agguantare al volo un paio di quadrifogli nel sozzo ma comunque verdissimo praticello dell’amena fermata di Uruguay. Saliamo a bordo d’un nuovo treno della rossa, meta piazza Duomo, per poi raggiungere a piedi il luogo dell’incontro, fissato per le ore 18. Potevamo per caso arrivare in ritardo a un appuntamento come questo? ¡Sí que podemos! Ci sono io, è chiaro che arriveremo in ritardo! Sicché giungiamo in corner alla Fondazione Feltrinelli e la saletta è quasi tutta piena... Ma il buon vecchio trucco funziona sempre: basta far vedere che conosciamo personalmente il relatore, che siamo amici allui, e immantinente dei paggi solerti approntano tre sediole per le nostre terga scultoree, accendono un ventilatore per ristorarci e ci offrono anche delle bollicine d'annata. Questo no, scherzavo. La storia dello champagne è una balla. Ad ogni modo riusciamo dunque a prender comodamente posto a  incontro con sommo culo non ancora incipiato.

Ed ecco che… dopo una breve attesa (durante la quale riconosco nel pubblico pure la mia dolcissima profesora Concha, insegnante di spagnolo all’Instituto Cervantes – che meraviglia trovarla qui!) Juan Carlos Monedero finalmente fa la sua entrée nella sala. Di nero vestito, in occhiali rotondi e gilet, incarnato nelle fattezze di Pino Strabioli. Ci piace Pino Strabioli! Ma alla fine ci piacerà un sacco anche Monedero.
Passo felpato, batte le mani verso il pubblico suscitando l’applauso, col fare stilizzato d’un ballerino di flamenco… Mi perdoni per il paragone, comunque c’è molta spagnolità in lui, molta teatralità concentrata, ecco.
E poi incomincia. Non a ballare, ebbene no, ma a parlare, seduto nella cornice della Fondazione Feltrinelli e dei suoi tomi storici, incasellati in mensole bianche incassate che perimetrano le pareti circolari della sala. E che dice, signori.

Ora, non starò certo qui a riportar malamente quanto cristallinamente enunciato dal buon Monedero, in quanto col mio sommario e impreciso resoconto rischierei giustamente di farlo incacchiare più ancora che per avergli dato del flamenchero, e sia mai ch’io incarni la pratica, descritta da Galalai Galalaia nell’incipit del suo Saggiatore,  invalsa, presso chi è ignorante in una tal materia, di voler proprio di quella risolutamente discorrere; anche perché ottimi libri e ottimi articoli – anche del nostro esimio sociologo, sapevatelo! – sono stati vergati al riguardo, con evidente maggiore scientificità di quella che la cojoncella scrivente potrebbe quivi profondere con la sua insipienza. Eppoi val sempre buona l’asserzione tratta dal Tractatus wittgensteiniano per la quale 'su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere' – che messa qui così sembra il consiglio d’una nonna di buon senso, e invece. 
Purtuttavia è interessante appuntare, in questa nostra rubrichetta de la paloma, in forma di note sparse, qualche spunto et suggestione offertici dal Juan Carlos, coll’obbiettivo quantomeno di inquadrare la vicenda di Podemos, nonché di intendere e carpirne i segreti con l’auspicio d’una sua replicabilità. Perché, d’altra parte, è di questo che parliamo. Amici spagnoli, orsù, siate generosi, diteci, come minchia avete fatto?

Ed ecco che, in uno spagnolo declamato (anche questo teatrale assai, è evidente che il nostro ci sa fare – non per nulla è stato uno dei protagonisti della Tuerka), frase per frase, in una scansione dettata da pause utili alla traduzione, il buon Juan Carlos rende a poco a poco il suo spagnolo comprensibile, magicamente e misteriosamente comprensibile, coinvolgendoci, da bravo affabulatore, nel racconto della nascita di Podemos, ma soprattutto nella vivida descrizione del sostrato economico e pure emotivo che ne ha costituito fondamentale premessa; che è quello sul quale il movimento-partito di Podemos ha saputo tracciare un orizzonte di partecipazione, adesione e azione chiaro, netto, necessario.
Dando una risposta a chi si sentiva in colpa per aver perso, per una legge ingiusta e terribile, oltre i limiti del disumano, la propria casa. Dando una risposta a chi si sentiva in colpa per non avere un lavoro, o per averlo precario (d’altra parte,  “se non ti sei messo a studiare cinese su internet alle cinque del mattino, come credi d’aver diritto a rivendicare un lavoro?” – eccerto). Dando una risposta a chi s’affannava a capire come ‘investire’ su sé stesso, ragionando sulla propria ‘redditività’, e sulla propria spendibilità e collocabilità nel mercato del lavoro: un repertorio lessicale mutuato acquiescentemente, senza averne coscienza, dal sistema del capitale, ove ogni cosa è merce. Ad indicare quanto ci siamo finiti dentro, fino al collo, e senza accorgercene. Una bella, inquietante riflessione sulla mercificazione e monetizzazione delle cose. Di ogni cosa (e detto da uno che si chiama Monedero cioè portamonete ehehcome vedete la mia demenza non ha davvero limiti, abbiate pietà). Perfino le emozioni, perfino noi stessi. Noi stessi. C’è un sacco di Marx nelle parole di Monedero, ed è una vera gioia del quoricino ascoltarlo.  
Dando una risposta insomma a chi era preda del miedo. Della paura. A quella gente ‘decente’ – come recita il titolo del suo libro – che non vuole e non se la sente di recidere del tutto i legami, fattisi esili quanto il filo di bava d’una ragnatela, della solidarietà sociale. Del collettivo. E in tempi così duri. Gente decente che non vuole essere mangiata, ma non vuole neanche mangiare. Quelle persone buone vivaddio non individualiste. Ché alla fine lo dicon pure gli adagi popolari: l’unione fa la forza.

Come è riuscita Podemos in tutto ciò? E in quel ‘come’ c’è dentro un mondo. Un mondo sterminato di speranze anche nostre.
La ricetta non è semplice. In punti sparsi: guardare all’esperienza dell’America Latina. A Chavez ad esempio (e qua soddisfatti ammiccamenti a gogo tra il cognato nel pubblico e l’amico ricercatore: grande scena!). Evitare di parlare di ‘destra’ e ‘sinistra’ (ribaltamento dei miei intestini, ma poi Monedero spiega meglio e si fa quasi perdonare – quasi). Avvicinarsi alla ‘mayoría silenciosa’, e farlo con impegno, attraverso tutti i canali. Non solo l’internet, appannaggio vieppiù d’una popolazione ciovane, ma anche attraverso la televisione. La Tuerka Tv e i suoi programmi hanno contribuito a far conoscere i volti delle donne e degli uomini di Podemos, le loro parole, le loro idee. Le loro posizioni. E, naturalmente, grande capacità di Podemos è stata quella di raccogliere l’eredità di un movimento grande e partecipato come il Movimiento 15-M, quello degli indignati. E non era facile incanalare le energie e le nuove coscienze liberatesi in quel momento. Eppure Podemos ce la sta facendo; ma come spiega Monedero ci vuole pure una buona dose di fortuna, di caso favorevole. Non sempre bastano solo gli elementi giusti. È così anche nelle fiabe, del resto: un re incontra una principessa… d’accordo, ma appunto si devono incontrare. E comunque, ha chiosato Monedero, “a me i re piacciono solo nelle fiabe”. E buongesù, quanto non essere d’accordo con lui (e detto da uno con un nome da monarca spagnolo… ok ok la smetto).

Ultimissima nota, e qui entra in gioco il nostro sociologo, è quella che inerisce la natura felicemente ibrida di partito-movimento di Podemos. Perché un partito ha sempre bisogno dell’ossigeno vitale d’una innervatura sociale; e perché un movimento ha sempre bisogno d’una spinta trainante dall’alto, senza la quale piazze piene rimangono inascoltate da governi che, appunto, ‘vanno avanti’. Riassumo molto, impoverendola di parecchio, una bella disamina del nostro ricercatore bicocchiano. Si può fare anche qui? Tutto ciò si può fare anche qui, dove abbiamo vissuto un’atomizzazione della sinistra come neanche le chiese giudaiche in Brian di Nazareth, paragone di Monedero, che è uno scoppiettante e divertente oratore?
La risposta passa per l’avveramento di tutte le condizione enunciate dal buon Monedero. Ma il nostro amico sociologo per certi versi ci rassicura: indicandoci esperienze importanti e belle come i movimenti no tav, no muos e quello contro la privatizzazione della gestione dell’acqua. Grandi battaglie agite da persone con una coscienza, persone decenti che non si sono mosse nella logica dell’intoccabilità del proprio giardino, deviando da una prerogativa nimby, individualista, ma riuscendo al contrario a creare un prezioso network di lotte, di contestazioni, di battaglie non isolate ma vicine, unite, sovrapponibili. Partecipate insieme, in una logica collettiva. È questo fermento che va coltivato, sperando di averne forza e intelligenza, come le donne e gli uomini di Podemos. Per il lavoro, per la casa, per la salute, per l’ambiente, per tutti quei diritti fondamentali dell’uomo enunciati in modo avanzato nella Dichiarazione universale dei diritti umani del ’48. Con forza, dicevamo, e intelligenza. E – ha sottolineato più volte Monedero – anche con emoción… Del resto semo latini, ci vogliamo mettere un po’ di corazón?

Questa rubrica del piccione ha voluto dare conto di questo, di una importante e utile conversazione che si è svolta in Milano appena qualche sera fa, nella cornice limpida e tranquilla di uno degli ultimi giorni di questa ormai conclusa primavera. Il teatro, come ricordato, è stato la Fondazione Feltrinelli: un luogo che rende giustizia al suo nome ricordando chi era davvero Feltrinelli, 'bibliofilo ideologico', come chi lo conosce bene lo definì, che sarà pure stato un padre padrone, come lo descrivono i collaboratori dell’epoca, ma che non avrebbe mai pasteggiato da Reds sotto l’Unicredit con in mano un libro di Pansa. La Biblioteca Feltrinelli nasceva come archivio di documenti e testi sul socialismo internazionale e sul movimento operaio. Questo aveva in testa Giangiacomo. Dall’inizio alla fine: il suo ultimo irrealizzato progetto, inseguito a lungo e concepito durante i suoi viaggi a Cuba, ove spostò il baricentro della sua identità da editore a militante, d’un libro-diario di Fidel Castro, buondio ce lo conferma. E per carità, è vero che non disdegnò di dedicarsi a quella che egli stesso chiamava ‘letteratura di consumo’; ma cristoddeo, la letteratura di consumo di allora erano gli autori latino-americani e la narrativa europea (scovati grazie a cacciatori di libri che erano scrittori essi stessi nonché editati e tradotti da gente come Bianciardi, Bianciardi signori, mannaggia la mignotta!). Mica l’oroscopo, le biografie di Brosio, la ‘letteratura femminile’ (oh, giuro che è chiamata così all’interno delle Feltrinelli!) e la dieta del muco. Che poi è tutta la merda che impesta, oggi, le commercialissime librerie che di Giangiacomo Feltrinelli portano il cognome. Voglio dire, allora questa merda me la compro in Esselunga, che tanto c'è anche lì e costa pure di meno. Per questo è stata pura gioia, al termine dell’incontro, avvicinarmi alle succitate mensole piene di libri che facevano da fondale ai relatori e leggere sul dorso largo del primo, vecchio librone rilegato guardato a caso: “Compère-Morel. Grand Dictionnaire Socialiste”.
Una visione per me bellissima e pure un po’ emozionantella, ciliegina d’un pomeriggio-sera milanese in ottima compagnia e pieno di belle parole, intenso, utile e ossigenante. Vero.


Notasi posa flamenco di Monedero e a sinistra (sinistra ovviamente) il nostro sociologo