lunedì 3 novembre 2014

Il giardino filosofico - Com'è bello com'è bello il nuovo parco del Portello



Quest’oggi, miei millemila lettori, andiamo alla scoperta di un altro angolo(ne) di verde milanese di tutto rispetto, non antico ma recente, simbolo anche questo della trasformazione urbana di cui, nel bene e nel male, è stata oggetto negli ultimi otto-dieci anni la città della scrofa semilanuta.
Il parco di cui parliamo è stato infatti inaugurato solo nel 2012, dopo un’attesa impaziente, una gestazione lunghissima durante la quale circolavano sul web rendering capaci solo d’accrescere l’acquolina in bocca e la curiositas. Un mega cantiere misterioso, sorto in una zona della città, quella del Portello, lustri addietro occupata dallo stabilimento dell’Alfa Romeo, allora la FIAT milanese, per estensione e numero di addetti, pur fatte le debite proporzioni. Un’ex area industriale dunque, risorta dopo l’abbandono per merito d’un massiccio ma azzeccato sconvolgimento edilizio, articolato in molteplici e riusciti interventi architettonici, sotto l’egida d’un macroprogetto targato Studio Valle: la realizzazione del fondamentale CC Portello, le case nuove di Cino Zucchi in largo Zanuso (di cui però parleremo un’altra volta, onde concentrarci quivi sul già corposo capitolo del parco), svariati ponti, braccia tese d’acciaio che fungono da collegamento tra i quartieri contigui, e, last but not least, il parco di cui testé andremo a raccontare. Insomma, come vedete c’è molta carnazza al fuoco, e io, che da par mio non so cucinare nemmanco una minestrina, sarò il vostro chef.

Il nuovo parco del Portello, realizzato dallo studio Land, nasce da un’idea di Charles Jencks, apprezzato e noto paesaggista, americano ma scozzese d’adozione, signore non giovanissimissimo che val sul serio l’impegno di conoscere. E forse bisogna proprio partire da lui, per parlare del parco del Portello. Amico di Peter Higgs (quello del bosone, ricordate? - qui una foto che li ritrae assieme in gioviale compagnia del fu direttore del Cern; ovviamente Jencks è quello vestito da giardiniere) e di Jeremy Watson, scopritore del DNA, ha saputo modellare, con intelligenza e cultura che di certo non gli mancano, un parco che è più di un parco: è un percorso narrativo, una passeggiata in cui nulla è lasciato al caso, ma anzi in cui tutto, ogni singolo tassello, concorre a un disegno unitario e meditato, che risponde alla precisa esigenza di avere un significato. Senza volervi annoiare addentrandomi in particolarismi et vicessitudini dell’architettura d’oggidi (anche perché io stessa non ne so naturalmente un cazzosega), cari miei millemila lettori (sì, sono un tantino più sbruffoncella di Manzoni), Jencks si offre dal suo punto di vista in antitesi ad edifici che egli considera vuotamente iconici come il Guggenheim di Bilbao, di Frank O. Gehry, che ha a suo dire segnato uno iato nell’architettura contemporanea, aprendo una sorta di gara inutile all’edificio più ‘più’; epperò qui Mr Jencks mi trova in disaccordo con lui. Il suddetto Museo è bello, più dei brutti grattacieli che Isozaki e Renzo Piano stanno disseminando in molte città italiane. E non direi che sia vuoto di significato: è in fondo un edificio-opera d’arte che funge da museo per altre opere d’arte contemporanea. Il nesso dunque, quantunque magari semplicistico, mi par ci sia, piacciano o non piacciano le linee studiatamente sbilenche che lo compongono – tipo hey Frank, hai litigato con la carta stagnola.
Ma al di là di questa piccola divergenza di vedute rispetto all’opera di Gehry, sono assolutamente concorde con Jencks quando afferma che un edificio, o una realizzazione destinata al tessuto urbano, non deve essere in sé gratuita, priva di pensiero, slegata dallo Zeitgeist, ma frutto del suo tempo o ancor meglio dello spirito del tempo, offrendo a coloro i quali ne saranno, in senso lato, gli ‘abitanti’, uno spazio di fruizione non solo materiale, strictu sensu (è un parco, chiaro, ci si passeggia, gioca e ci si piscia il cane), ma di pensiero, di riflessione, esperita in prima persona.
La decadenza dell’architettura contemporanea è legata, secondo Jencks, al declino di quelle narrative laiche condivise, come progresso, socialismo e democrazia. Per questo l’architettura e l’architettura di paesaggio in particolare, quest’ultima utilizzando quali proprie componenti i secolari strumenti offerti dalla Terra, terra, semi, erba, acqua e luce, debbono tornare a mettere al centro d’un progetto un senso. Un senso che nel parco del Portello si individua perfettamente: tutta la composizione di questo giardino costituisce un inno alla scienza, al progresso, al lungo percorso di conoscenza, scoperta ed elaborazione intrapreso dall’uomo sin dalla sua comparsa; un’esaltazione del positivismo del postmoderno. Questo è il senso affidato da Jencks alla sua opera milanese. Un manuale, da sfogliare, per ricordarci il cammino straordinario della Terra e dell’uomo, un riassunto dell’evoluzione, come ci ha condotto sin qui dall’alba del mondo.
Il parco del Portello racconta tutto questo; non rifugge il concetto, il ragionamento, l’intelligenza, ma ne è al contrario informato. In un progetto che, oltre a ciò (e forse proprio questo), anche nella sua fruizione più immediata, e nel semplice aspetto parchistico ‘visivo’ si rivela bellissimo e radioso. Ancor più di come appariva nei rendering diffusi prima della realizzazione e dell’apertura. L’intelligenza è, del resto, bellezza.       
E altro merito del progetto di Jencks, squisitamente sotto al profilo formale, è quello di aver realizzato, in controtendenza rispetto all’attualità, un parco assai disegnato – e come tale ben poco a bassa manutenzione – accostabile per ambizione ai superbi giardini cinque e secenteschi; con un’accuratezza e nitidezza delle forme, quasi scolpite, che nel giardino moderno non si erano decisamente vedute più. E ciò conferisce ulteriore valore a questo parco e a questo progettista.

E giustamente, dopo questi sproloqui, vi starete chiedendo come minchia è fatto questo parco.
Andiamo dunque a descriverlo.

Con i suoi ottantamila metri quadri, il parco del Portello non è esattamente quello che si potrebbe definire un giardinetto. È una composizione complessa, un accostamento di zone, di aree differenti, in una passeggiata coinvolgente, sempre nuova e mai uguale, ricca di visuali.
Possiede una montagnola verdissima, la cui sommità è raggiungibile da un doppio percorso di sentieri a spirale, che nel loro snodarsi non si incontrano mai; come le eliche del DNA. E difatti in cima è collocata una fontana al centro della quale sorge una scultura, che proprio un segmento di acido deossiribonucleico rappresenta. Da qui potrete godere d’una spettacolare visuale sul parco, o se preferite (son gusti) d’una visuale sull’ameno viale Serra, forse una delle vie più inquinate di Milano. Ora ben contrastata, però, da questo meraviglioso polmone verde.
Accanto alla montagnola, che dialoga, benché a distanza, col Montestella poco più avanti, storica ‘montagnetta’ della città di Milano, sorge una doppia collina sinuosa, a forma di S, che sembra il dorso d’una creatura preistorica, il cui crinale è percorribile, avventurandosi nella stradina di ghiaia ricavata tra due filari paralleli di siepi. E nello spazio creatosi al centro, il laghetto: uno specchio d’acqua circolare, tagliato da una lingua di terra erbosa che fa somigliare i due bacini così ricavati, come mi suggeriva un evidentemente attento collega (ebbravo Andrea!), al sole e allo spicchio di luna (bisogna vederlo). Tutto intorno al laghetto, a ridosso della collina, corre una panchina, messa in opera solo dopo l’apertura del parco, una panchina infinita, la classica panchina a listarelle verdi dei parchi, che è però qui continua, e sembra quasi voler riunire tutti i visitatori, anziché in panche disperse e separate, in un’unica seduta. Che è già un’idea geniale e meravigliosa.
Superata la zona delle collinette, ecco un’area destinata ai bimbi, tra altalene, giochi vari e un'altra lunga panca per gli sfatti genitori.
Ma ecco che, da qui, percorsa una passerella in discesa, si accede alla zona più raccolta e meravigliosa di tutto il parco. Un giardino segreto, un luogo di tranquillità purissima e di bellezza assoluta, scandito da una trama di piante, fiori e arbusti che crea una visione unica, quasi un acquerello dominato dai colori del rosa. Ciliegi, lavanda, rose canine, edera e barberis rosso; in primavera è un’esplosione, tra i ciliegi in fiore, i cui petali si radunano in modo struggente per terra, creando un pavimentino umidiccio sul quale atterrare di culo è invero assai facile, e il muro rossastro che lo cinge dall’altra parte, sotto a un pergolato d’edera.
Questo spazio si chiama Time garden, ed è attraversato longitudinalmente da un sentiero rivestito da 183 piastrelle nere e 182 piastrelle bianche, a simboleggiare i 365 giorni dell’anno, in un percorso che racconta le ere della preistoria, storia e presente, scandite dai grandi trapassi dell’evoluzione: l’origine, la creazione degli atomi, le galassie, la nascita della Terra e le prime forme di vita. Che poi sono le cose superbelle che ci insegnano le maestre alle elementari, solo che poi tendiamo lentamente a dimenticarle. E sui sedili rosa che lo bordeggiano, ecco incisi su lastre d’acciaio satinato i nomi delle stagioni e su divisori aggettanti i nomi dei mesi dell’anno.
Lo scorrere del tempo, quindi, in piccolo e in grande. A misura d’uomo e a misura del cosmo. Questo è il racconto fatto dal giardino del Tempo. Ed è commovente come questo delicato hortus conclusus costituisca, tutt’altro che casualmente, una visuale impagabile, e anche uno spazio da vivere, per gli ospiti della casa di riposo di fronte; persone che di scorrere del tempo se ne intendono. Insomma, finalmente qualcuno che pensa pure ai vecchiarelli, mica solo (si veda il giardino della GAM) ai mocciosi!
Nella morfologia del parco ricorrono riferimenti a galassie, conchiglie, spirali ed eliche; forme primordiali, antiche quanto è antico il mondo ma così faticosamente scoperte e descritte dall’uomo, nel suo lungo, avvincente cammino d’esperienza e conoscenza, assistito dagli strumenti che la tecnica ha saputo via via approntare. Un lungo cammino difficile, irto di superstizioni e credenze da abbattere, di teologie e dottrine avverse, di ipse dixit, di libri bruciati e di altri esaltati come il vangelo (letteralmente!), di processi, roghi e abiure da scontare. Ma è un cammino che ci ha condotti fin qui, che ci ha fatto conoscere la sfericità della Terra, il sistema solare, il moto celeste, il funzionamento del nostro organismo, l’atomo, il DNA. E il bosone di Higgs, eh, non ce lo dimentichiamo, che Higgs è pure amico di Charles Jencks. Un cammino irrinunciabile e irrinunciabilmente laico.

Questo è ciò che il signor Jencks ci racconta nel suo parco meraviglioso.
Ed è per questo che, per assaporare in pieno le potenzialità di questo parco, è bello tornarci in tutte le stagioni, vederlo in fiore e sotto la neve, per calarvi in una sorta di metafruizione d’un giardino che vuole esattamente raccontarvi questo: il Time walk, lo scorrere del Tempo.
Dopodiché rimane un parco, un parco dove poter fare tutte le cose che si fanno in un parco. Correre, camminare, sedersi sull’erba sfidando animali feroci come vespe e zanzare, ma anche offrendosi la possibilità di fare incontri casuali con coccinelle e piccoli maggiolini cangianti di passaggio. Un luogo in cui cercare quadrifogli, leggere, passeggiare e sostare, magari improvvisando piacevoli picnic. Nel Time Garden ad esempio i tavolini di pietra con relativi sedili, immersi tra i fiori (e qua veramente chapeau a chi ha avuto l’idea di inserirli), sembrano esattamente invogliare a un sano aperitivo biologico, tra succo di pomodoro e barrette vegan (scherzavo eh, crodino fonzies e rutto libero è la giusta combinazione – e comunque vicino c’è pure un Mc Donald’s in cui rifornirsi di cibo quello sì de sostanza).

Non so misurare la sorpresa che ebbi quando percorsi per la prima volta gli spazi completamente nuovi del parco del Portello: era dicembre, aveva appena nevicato e la collina era bianca come se qualcuno le avesse polverizzato sopra, con un setaccio, dello zucchero a velo, splendeva il sole e per fare onore all’età mia e a quella di chi era con me ci si dedicò a simpatici giuochi con le lastre di ghiaccio trovate qua e là intorno al laghetto – che era, difatti, completamente ghiacciato. Un paesaggio sconosciuto ma che ci aveva già fornito gli elementi per cazzare sentirci accolti e a proprio agio in questo grembo racchiuso, cinto tra le dune erbose.
E bello fu tornarci a primavera, coi ciliegi in fiore, un fuoco d’artificio rosa da rimanere a bocca aperta, sotto una pioggia lenta di petali chiari. Poi è venuta la calda estate, per sperimentare, riparati dall’edera, tra chiacchiere fitte con le persone giuste, un po’ di sana sudazza dall’ascella; e poi di nuovo l’autunno, con il suo paesaggio esanime e sfiorente, preparazione a un freddo inverno incubatore d’una nuova primavera. E mobbasta, perché stiamo finendo in zona Kokin waka shū, e non vorrei, mica sono un lirico giapponese.

Tutto questo per dire, e di parole ne ho spese sin troppe, che il parco del Portello è un parco bellissimo, e che vederlo una sola volta non basta, ma occorre tornarci, come in tutti i bei luoghi di questa città.
Un giardino filosofico, quello che il signor Charles Jencks ha deciso di regalarmi a pochi minuti da casa mia, che potrebbe entrare già ora, di diritto, nel libriccino sull’arte dei giardini di Pierre Grimal. Proprio come espressione e proiezione migliore del suo tempo, un tempo della Scienza e della ricerca della verità, che ci invita a trovare spazio per il pensiero e la lentezza, in un mondo dominato da logiche mercantili (e capitaliste) e a liberarci di antiche zavorre e idoli ingombranti che impediscono il progresso dell’umanità. Che è una di quelle narrative laiche nel cui declino Jencks intravede fenomeni di decadenza, dell’architettura e, azzarderei, non solo.

Quante cose, insomma, se si vuole, possono esserci in un parco. Al nuovo parco bellissimo del Portello, a Milano, nella nostra città, thanks to Mr Jencks, oggi, si trova tutto questo.



















venerdì 17 ottobre 2014

Via Brisa, un quadrato di Roma Antica a Milano – Spin off del Museo Archeologico


Avendo parlato di quella meraviglia che è il Museo Archeologico non si può non parlare di un altro luogo unico in Mediolanum, al Museo peraltro concettualmente e quasi fisicamente connesso: stiamo parlando delle rovine romane di via Brisa. Per me è un luogo imprescindibile della mia città, e non saprei spiegarne il motivo, forse perché di motivi ce ne sono più d’uno. Forse perché è magnificamente defilato e, se non hai ragioni per andarci, in via Brisa neanche ci entri, cosa che protegge questo luogo miracoloso dal passaggio delle folle. Forse anche perché, con una bella faccia da cül, ho cercato di far la splendida con un romano con l’argomento delle rovine romane milanesi, ed ha pure funzionato. O forse mi piace perché non posso nascondere che la mia vita si è rimessa in moto da qui, o in fondo mi piace perché questo luogo, questo piccolo, protetto, meraviglioso e insolito quadrato di città, è semplicemente bellissimo, e rappresenta una Milano che non sembra Milano ma proprio per questo è una Milano ancor più vera. La vera Milano. Che è quella che in questo bloggo si va cercando.

Le rovine sono ciò che resta del palazzo dell’imperatore Massimiano, allorquando Mediolanum era la capitale del Sacro Romano Impero d’Occidente; quello che decadde, come il Carlo Maria Cipolla ci spiega con molto humour, perché la classe aristocratica romana si faceva di piombo, molto piombo, piombo in quantità. Ma Mediolanum fu città-guida in un'epoca (286-402 d.C.), seppur di poco, precedente, non ancora di declino, per cui evidentemente deduciamo che i nobili mediolanesi non avessero ancora maturato in maniera sì massiccia tali gusti alimentari un po’ discutibili e un tantino indigesti.
Ad ogni modo, nella fattispecie, l’edificio di cui si ammirano i resti pare – pare – fosse quello adibito ad usum termale, perché, tra tepidarium e calidarium, sappiam bene che gli antichi romani amavano molto dilatarsi le vene coi bagni bollenti – e in queste abitudini e relative conseguenze io sono una loro degna discendente (vero dottore che mi fai l’ecocolordoppler?). Era inoltre poco più avanti da qui che si estendeva la parte finale del circo (la cui torre, vi ricordo nel caso in cui non siate state attenti nelle puntati precedenti, fu ‘riciclata’ come campanile del convento di San Maurizio); e il circo era il passatempo principe degli antichi romani, che, come Angela padre e Angela figlio sapientemente ci spiegano, ci avevano pure gusti un po’ sadici nei loro divertissement. Ma cosa aspettarsi da gente che assumeva quelle quantità di piombo.
Terme dunque, e circo: due luoghi simbolo della civiltà romana. Qui, a Milano, ed è veramente meraviglioso ciò che si apre allo sguardo entrando nella stretta viuzza di via Brisa da corso Magenta, dopo aver superato la Drogheria Soana con i suoi interni fermi agli anni Sessanta e le sue ipnotiche e stipate vetrine: un recinto di ferro delimita i resti archeologici, che emergono logicamente a parecchi metri più in basso rispetto al piano stradale (e comunque Milano è o non è, del resto, la città che sale?), dai mattoni rossi, mattoni color mattone praticamente, in mezzo all’erbetta fresca e verde che li circonda. Il mio sogno proibito, lo ammetto, sarebbe scendere e poterci camminare in mezzo: credo che il mio piccolo quore esploderebbe di felicità, e più volte, assistendo a manovre di giardinieri incaricati dal Comune di manutenere il verde, loro sì autorizzati a scendere, e in possesso delle chiavi del cancelletto, ho pensato finanche di corromperli a cedere l’esclusiva con profferte di danaro… Un veloce calcolo delle mie liquidità mi ha tuttavia istantaneamente dissuaso dall’azzardare la proposta. Ma un giorno, quando sarò ricca e abiterò nel ficherrimo palazzo chiaro che si affaccia proprio sulle rovine (poi dicheno che uno non deve essere invidioso perché fa peccato), oltre a godermele dal balcone di casa durante la colazione, troverò il modo di avervi accesso con la classica scusa della mutanda stesa ad asciugare scivolatami di sotto.  
Ma tutto sommato è un bene, e son seria, che non vi sia libero accesso a questo spazio. Ma non perché trattasi di resti monumentali da proteggere – pur avendo in effetti a notare la diffusione d’una invero poco comoda usanza di confezionarsi originali e pesantissimi souvenir delle vacanze smontando sassi dalle aree archeologiche – o comunque, non solo; quanto piuttosto per il fatto che essi sono la casa, magnifica e degna, d’una colonia di gatti bianchi e neri, che ne sono i veri e legittimi padroni, e che mi suscitano sempre interrogativi salingeriani, quando è freddo e il suolo ghiaccia, su dove potranno andare a stare, come le anatre di Central Park. Ed è giusto così. I gatti riescono ad avere un sentimento speciale per le rovine antiche: se le prendono, ne fanno la loro dimora, e le riportano in vita, a distanza di secoli, esattamente come accade a Roma. Sembra quasi una cosa magica, ancestrale. E per questi mici dal pelo lucido che stanno sdraiati sulle antiche strutture e vi passeggiano felpatamente in mezzo, senza fretta, non si prova invidia, affatto, come se fosse così ristabilito, in questa loro conquista, un ordine cosmico giusto, retto, incontrovertibile.

Insomma, le rovine romane di via Brisa rappresentano per me un luogo speciale, che riesce a infondermi una tranquillità che veramente pochissimi altri luoghi riescono ad offrirmi. È bello fermarsi qui, in ogni stagione, col caldo e col freddo, di giorno, magari dopo aver bevuto un cappuccino nelle tazze gialle del consigliatissimo bar El Canton poco più avanti, vero bar milanese nel senso migliore dell’espressione, piacevolmente old fashion, o di sera, quando le rovine s’accendono d’un caldo giallo dorato di grandiosa suggestione.
Ma in qualsiasi momento vogliate raggiungere questo fazzoletto di terra solcato dalle vestigia d’una civiltà che fu, vi accorgerete di avere a disposizione un luogo dove fermare lo sguardo al di là d’una balaustra, come davanti al mare, o a un lago, nonostante ahimè l’iperattività edilizia alle sue spalle, seguendo con gli occhi le curve e le rette descritte dalle antiche fondazioni, per perdervi nella visione e trovare, davvero, qualche prezioso granello di pace e di bellezza.
Un luogo di Milano, le rovine romane di via Brisa, raccolto e silenzioso, e, come tutti i resti di antichissime strutture, immoto e pacificato nel lungo cammino del Tempo, e quindi capace di dispensare vera quiete. E questo, personalmente, non credo sia poco.

Il dettaglio da non perdere
[Rubrichetta del a chi vuoi che gliene impipi]
Il dettaglio di cui di seguito poco ha a che fare con i resti archeologici romani in sé, ma, sorgendovi a pochi passi, possiamo dire completi il paesaggio di via Brisa. Percorrendo e superando il perimetro delle vestigia si arriva all’incrocio con via Gorani e… ci siete? Bene, guardate in su. Bravi, l’avete trovata: la terrazza quadrata con piantato un ulivo, esattamente in cima a un palazzo chiaro, ma proprio in cima eh. Una diapositiva da gomminodeltergilandia, verissimo, ma senza dubbio un angolo di città insolito e da vedere. Eppoi, caro (?) Boeri, se non un bosco verticale un ulivo verticale prima di quella doppia strùnzata che troneggia con le sue sterpi e le sue tristi piastrelle nere in Garibaldi. Cioè: se lo godranno in pochissimi, magari due o solo uno, ma ha molto più stile e soprattutto non finge d’esser verde per i cittadini – pur costituendo per i cittadini una deliziosamente inconsueta visione. Tiè.







venerdì 26 settembre 2014

Il Museo Archeologico di Milano, giostra di meraviglie


Come già ivi anticipato, il Civico Museo Archeologico di corso Magenta 15, con il suo portalone barocco e l’ingresso verdino con l’insegna in ottone, è un luogo meneghino per me assai strettamente e delicatamente connesso alla nascita del mio amore per questa città.
La sua scoperta avvenne in solitaria, in un’estate un po’ tristanzuola in cui mi gettai in una disordinata ma vorace perlustrazione delle vie di Milano e dei suoi tesori; che seppero elargirmi, anche questo anticipato nel post d'apertura del mio seguitissimo bloggo, non poco conforto. E possiamo dire che il detto Museo Archeologico, spazio incantevole, giostra meravigliosa da affrontare con l’entusiasmo di quei piccoli cosi chiamati bambini, ampio ruolo ebbe in ciò, visti i ripetuti wow di stupore che disseminai durante la visita alle varie sale, facendo la figura dell’idiota al cospetto delle telecamere di videosorveglianza e di qualche sconcertato custode di turno.
E vediamone dunque i motivi, di questo amore, tutti importanti, tutti preziosi, ognuno un piccolo fuoco d’artificio esploso nel mio quoricino.

Innanzitutto stiamo parlando d’un distretto archeologico caldissimo per la Mediolanum che fu: e il pregio del Museo è quello di aver conservato una certa stratigrafia, che dà modo di vedere oggi, o quantomeno poter bene immaginare, cosa doveva esservi sorto un tempo. Tra via Nirone, corso Magenta, via Luini e via Brisa si ergeva infatti il palazzo imperiale di Massimiano, risalente all’epoca in cui Milano era capitale dell’Impero. E racchiusa dalle acciottolate mura massimiane era l’estesa struttura del circo, una torre del quale è sopravvissuta in quanto trasformata in campanile del monastero di San Maurizio, ricovero claustrale delle monache benedettine sorto nel corso del Cinquecento, che, detto ‘la Sistina di Milano’, merita però un capitolo a parte.
La torre, quadrata nei suoi mattoni rossi e nelle piccole aperture, si apprezza nella sua antica imponenza dal cortile porticato del Museo, che è al detto monastero perfettamente attiguo, nel senso che dall’uno si entra nell’altro e viceversa, il che è onestamente spettacolare; e io ancora non mi capacito di questa meraviglia, che è il motivo n° 1 per definire il Museo una vera e propria giostra. D’altra parte, quel che oggi è cortile del museo, era un tempo cortile del convento, luogo deputato alla fruizione dell’aria aperta da parte delle monache di clausura.
Un cortile porticato che è qualcosa di indescrivibile. Caspiterina, come si può descrivere tanta bellezza? L’hibiscus lilla che aggetta dal prato, il retro con il melo selvatico gravato dai suoi frutti, i resti di cornicioni antichi e capitelli accatastati per terra e striati dal muschio, le stele marmoree disposte lungo il portico, quasi un cimitero senza spoglie; e la seconda torre legata alla storia del museo: la torre poligonale, a ben ventiquattro lati, risalente all’epoca tardo-imperiale e appartenente al circuito delle mura della città, oggi raggiungibile da una comoda e salda passerella, mentre prima della recente, massiccia ristrutturazione del Museo, si dovevano affondare i piedi nel bagnato del prato e salire su una pericolante scala (emozionante anche quello a suo modo). Una meraviglia, la torre poligonale, basterebbe già questa a rendere Milano speciale. Al suo interno furono affrescate, in epoca medievale - testimoni della trasformazione da torre difensiva a cappella - scene religiose, con Cristo e una teoria di santi, tra cui Francesco raffigurato mentre riceve le stimmate, rappresentate sottoforma di lampi di luce; una scena quanto mai iconograficamente rara e affascinante, che possiede un che di bozzettistico. E il fatto che si tratti d'affresco d'epoca e gusto medievali è attestato anche dalla sinuosa decorazione a girali vegetali, che percorre a fascia la porzione di parete sottostante i santissimi. Ora all'interno della torre è stato posizionato un dormiente, di Mimmo Paladino, che solo soletto là dentro, con la sua faccia di creta sconquassata e senza volto, raggomitolato nella classica posizione fetale, fa pure un po’ paura, sembrando uno lasciato a crepare senz’acqua né cibo chiuso nella torre; ma credo che in effetti non vi sia luogo milanese più appropriato per dargli casa.

Alle spalle della torre poligonale, la cui sommità fa da punto di raccolta per vivaci rondinotti (uno spettacolo ipnotico seguirli nei loro voli di primavera), superando un antro ritagliato da un vecchio muro di mattoni, ecco l’accesso all’area nuova, esito più esplicito dell’intervento di ristrutturazione di cui sopra: un’architettura di vetro e acciaio, perfettamente internazionale moderno ma in miniatura, a misura, integrata nel contesto antico in cui è stata inserita, ondulata come il dormitorio della Baker House di Alvar Aalto (riferimenti a cazzo lo ammetto, mi avete scoperto), dove sono albergate le collezioni delle civiltà longobarda, etrusca, villanoviana e, all’ultimo piano, quasi un cammino verso l’Empireo, la sezione più nobile e bella, la mia preferita: quella greca. Con le loro meraviglie: il canopo con testa antropomorfa in legno di pero, splendidamente e miracolosamente conservato; i giocattoli dei bimbi, la bambolina snodata e animaletti; gli ori e la sublime arte metallurgica dei longobardi; i superbi bracciali di vetro; e poi i vasi bellissimi, in un’ampia gamma di forme vascolari, tra crateri, skyphoi, kantharoi, kylikes, coppe a occhioni, olpi e piccoli aryballoi, tutti con le loro minuziose e dettagliate scene mitologiche, o di vita quotidiana, di banchetto, palestra e allenamento degli atleti; e pure con qualche scena un po’ zozza (sulla quale però non dico nulla, ve la cercate da soli). E poi Lui, la commozione, la Felicità di quell’estate che faceva buio mentre fuori splendeva il sole, il pezzo da lacrima sommessa: un frammento di vaso attribuito a Euphronios signori, Euphronios, raffigurante Eracle con leontè: si guardi la cura strepitosa delle ciglia, della barba, l’occhio vispo e il tratto sottile tracciato da una mano sicura, come poteva essere solo quella del grande maestro delle figure nere… Lui o un altro non importa, nel mio quoricino io sono arciconvinta che quello, poche storie, sia proprio un pezzo di Euphronios! Che è poi un metodo scientificissimo per andare di attribuzione, il buon Bianchi Bandinelli andrebbe fiero di me.

Ed ecco che a ritroso – sì lo so, vi sto facendo fare un tour un po’ scombiccherato – riscesi i piani dell’edificio nuovo e dopo essersi ristupiti, a ogni livello, per la visione del paesaggio offerta dalla parete curtain wall, riattraversato il cortile delle meraviglie, siamo ritornati nella parte vecchia, dove prima erano accatastate le raccolte ora più ariosamente distribuite. Qui, nelle sezioni Mediolanum, è da non perdere un pezzone da novanta del Museo, il reperto dal nome complicato di coppa Diatreta Trivulzio, oggettino assai pregevole, di vero artigianato di lusso, adoperato come lucerna o forse come coppa per bere, come suggerisce l’iscrizione in elegantissimo bluette che corre lungo il vetro esterno, e che sembra essere una godereccia ed etilica esortazione: “bibe, vivas multis annis”: bevi se vuoi vivere a lungo. Bisogna seguire i consigli degli antichi, quindi beviamo! Io ad esempio bevo pure poca acqua, e non credo che i miei reni sian contenti.
Poi è bello qui scendere le scale sulla sinistra; e affrontare un altro, spettacolare giro di giostra:  “La sala è tutta sua. Si sbizzarrisca” sono state le parole di una dolcissima custode un giorno che coglionando il Comune di Milano ho optato per una visita mordi e fuggi durante l’ultima, gratuita ora di apertura. E ho tenuto fede all’invito: gustandomi prima il piccolo nucleo d’arte del Gandhara, con Buddha baffuti e belle dee dalle tette sode e prosperose; per poi rituffarmi nell’atmosfera romana, girovagando in una sala letteralmente tagliata in due dalle mura massimiane (non si può dire, lo si deve vedere); e percorrendo più e più volte, come se fosse un giro di giostra e anzi meglio, una passerella sopraelevata sovrastante una decorazione musiva pavimentale mediolana, rinvenuta in piazza Missori. Che meraviglia questa passerella, ogni volta che ci torno me la rifaccio saltellando un cifro di volte e con estremo sollazzo, per non smentire la fama di idiota al cospetto delle telecamere di videosorveglianza e di qualche sconcertato custode di turno. E non è questo, dicevamo, che l’ennesimo motivo per considerare il Museo una giostra emozionante.

Insomma, il Museo Archeologico di Milano è un luogo che non è solo un museo archeologico scientificamente valido ed avvincente, ma che è anche davvero un piccolo grande gioiello della città di Milano, misconosciuto, a torto sottostimato e sempre desertissimo, un luogo da vedere, da “provare”, da esperire nella sua articolazione avventurosa, da conoscere e da amare. Un luogo importante per Milano, scritto dallo scorrere dei secoli, che, strato dopo strato, lo hanno scolpito nella sua attuale, imperdibile e unica configurazione. Una passeggiata nel tempo, in bilico tra la Milano romana, medievale, cinquecentesca e attuale. La Milano che era, che è stata e che è.
Ed ecco perché qui ci ho portato e ci sono venute quasi tutte le persone del mio cuore, i punti luminosi della mia costellazione degli affetti, mutata negli anni a suon di defezioni più o meno amare, e di aggiunte dolcissime. Ecco perché: per tutti i motivi che ho elencato.
E quindi ecco signori, questa è la mia giostra, questa la mia promenade arquelogique in pieno centro, a Milano. Questo è il mio Museo Archeologico signori, e io Milano ho iniziato ad amarla da qua dentro.

Suggerimento per la visita
[Rubrichetta del a chi vuoi che gliene impipi]
Se durante la visita al Museo, complice l’arietta ghiacciata che si avverte nelle sale, che punzecchia birichinamente la vescica, dovete andare al cesso a svuotare la secchia, cercate di andarci nella parte nuova (quella ondulata come il dormitorio etc etc). Nulla di sconveniente nei bagni del vecchio edificio, ci mancherebbe, ma gli è che quelli nuovi son fighissimi, spaziosi, luminosi, e con visuali spettacolose dalle finestre, con affaccio sul cortile e sulla torre poligonale. Insomma, anche se non dovete pisciare io fossi in voi un giro dentro me lo farei. 












lunedì 4 agosto 2014

Lo spettacolo della morte: la cappella di San Bernardino alle Ossa


Ma interrompiamo per un attimo il gioviale racconto d’una città ariosa, tutta parchi e delizie che ho vergato sinora, per affrontare un brano mediolanense un tantinello più complesso, sicuramente meno immediato nel piacere che potrà generare nel visitatore, ma non per questo meno affascinante. Affascinante come tutte le cose che producono conoscenza, e che stimolano conseguentemente un pensiero, un’opinione, e dunque una presa di posizione, tramite in questo caso l’esperienza d’un vivido scuotimento emozionale capace di irraggiarsi alle papille gustative cerebrali; col valore aggiunto d’essere un’acquisizione preziosamente maturata sul campo, e non desunta dai libri. Un piacere di tipo storico insomma. Tutta questa fumosa introduzione per dire in soldoni che stiamo parlando della chiesa, anche questa centralissima come San Satiro, di San Bernardino alle Ossa, e d’una sua appendice architettonica.

La prima volta che ho visitato San Bernardino ero da sola. Era una scura mattina d’un freddo inverno milanese. Ne venni a conoscenza grazie a una mia cara zia, che di ciò ringrazio, e che si chiama zia Grazia (avevo voglia d’allitterare). Così mi dissi che avrei dovuto per forza farci un giro. Rigorosamente da sola però: senza distrazioni, battute, alleggerimenti. Una bella prova di coraggio per me, che ho la spavalderia grossomodo di un coniglio nano.
E questo perché lo spettacolo al quale s’assiste una volta percorso sino in fondo il corridoio a destra, indicato da un cartello con la scritta ‘Ossario’ e relativa freccia, può legittimamente impressionare e risultare inquietante.
Preceduta da un atrio rettangolare e accessibile dopo aver salito qualche gradino, la chiesa, ricostruita nel 1712 a seguito d’un incendio, possiede un aspetto piuttosto chiaro e luminoso. La nota lugubre e orrorifica è però anticipata dalla statuetta d’un neonato abbigliato di trine, dall’espressione vuota e fissa, un po’ come certi manichini della parte chinatown di Milano; anche se probabilmente detta statuina ha un più nobile e prossimo parente nel bambinello dell’Aracoeli di Roma Capitale, anch’esso infagottato di merletti e spaventosità.  Ma che gli viene in mente a ‘sti chierici, dico io. È poi volgendo verso destra che si intravede il secondo appetizer dello spettacolo scary che si intravedrà più oltre. Una parete di ex voto metallici, appesi in teche di legno e velluto, immancabilmente a forma di cuore, con la tipica punta inclinata; un oggetto che, confesso, mi impressiona sempre un po’, per l’odore acre che sprigiona di superstizione e Controriforma. E infine eccolo, in fondo al corridoio. Ciò che motiva la denominazione “alle Ossa” della chiesa. Il cartello e l’emerito custode, un mezzo clochard che staziona davanti all’edificio e che vi accoglie dandovi il buongiorno e indicandovi l’ossario con l’intenzione di ricevere un nichelino in cambio dell’informazione, non mentivano. Eccolo infatti, l’ossario. Quadrato, non particolarmente ampio ma nemmeno vivaddio particolarmente scuro, illuminato da qualche finestra di fortuna. L’ossario, con l’altare e le panche.
E alle pareti il motivo per cui molto probabilmente siete venuti al Verziere. Nicchie riempite di ossa umane trattenute da grate. Ossa disposte non a muzzo ma con ragionata precisione, assecondando un progetto decorativo evidente. In ogni nicchia, al centro, è realizzata, grazie all’accostamento dei teschi, una croce. Teschi uno sull’altro e uno accanto all’altro, con in mezzo un mare di vertebre. E non solo: scorrendo l’occhio verso l’alto, ecco ancora filari di teschi che corrono lungo cornicioni e scanalature prima della volta. E alle colonne, ulteriori ex voto intecati, e decorazioni di teschi e ossa affiancate a realizzare motivi ornamentali, in uno stile oltrebarocco, quasi con leziosità rococò. C’è pure il simbolo dei pirati, teschio e tibie incrociate! Ma che gli viene in mente a ‘sti chierici, ridico, numiddidio! E ci sarebbe veramente da chiederselo in effetti.
Ora, sulla provenienza delle ossa circolano diverse voci. Qualcuno ama raccontare che siano appartenute a deliquenti e briganti giustiziati; ma con maggiore probabilità si trattava invece delle spoglie dei defunti del vicino Ospedale del Brolo. Ancora l’annoso problema dei mediolani che non sapevano dove smaltire i corpi dei morti della città? Bè, non in questo caso. Non è conservazione questa. È gusto decorativo, certo un poco dubbio forse. Dubbio, già, sfido a dire il contrario. Dubbio ma non affatto inedito, nella storia degli edifici di culto cattolici. Resti umani incastonati a prefigurare l’ascensione e il trionfo delle anime raccontati dall’arioso affresco della volta, opera di Sebastiano Ricci (1695), un trompe l’oeil illusionistico tra angeli e putti, messo lì a rianimare l’occhio e l’animo dell’osservatore avvilito da questo insistito e debordante memento mori.

Bon, che effetto fece a me vedere l'ossario quando fu che c’andai per la prima volta, solina, in una mattina brumosa d’un deserto giorno feriale? Apparte che mi fece più impressione l’attigua chiesa di Santo Stefano, scurissima quasi da non percerpirne visivamente l’altare, ma questa è un’altra storia, ma se si esclude un signore non esattamente in sé che con una vissuta sportina di plastica tipo supermercato se ne stava in un angolo dell’ossario a salmodiare versi incomprensibili in una lenta nenia a bassa voce e con gli occhi chiusi, la mia reazione non fu di spavento, orrore o raccapriccio. Ma di pena. Per quelle povere ossa costrette all’esposizione perpetua. Per l’inciviltà d’un destino post mortem non scelto ma imposto (vabbè ch’eran tempi che pure il destino pre mortem era piuttosto, come dire, indirizzato dalla Madre Chiesa). Per questi uomini e donne, anime forse non sante, forse peccatrici, addossate e costrette a far mostra di sé negli effetti prodotti dal lavorìo sottraente della morte, che restituisce di noi solo l’interno scarnificato (anche se c’è da scommettere che tale materiale umano abbia subito come minimo una bella spazzolatura per poter essere usato, alla maniera del solenne Balkan Baroque di Marina Abramovic). Uomini che un volto ce l’avevano eccome, diamine. E che forse non avrebbero gradito quella sorte. Anime costrette a fare sensazione, poiché questo era lo scopo in fondo. Per questo ogniqualvolta mi capiti di mettere piede nella cappella dell’Ossario di San Bernardino alle Ossa, a Milano, mi pervade un automatico senso di rispetto, e di solidarietà per quelle vite del passato, violate e trasformate senza scrupolo, dopo l’ora del loro ultimo respiro, in uno spettacolo visivo barocco, raro, d’effetto. Una sorta di pornografia della morte.  
Ma questo luogo milanese, calco d’altri sparsi in varie latitudini del mondo cattolico, rimane invito, ineludibile, a una riflessione che sollecita corde mentali più ascose, utili a conoscere meglio, e quindi a valutare, certe pratiche e soprattutto certe secolari istituzioni, nell’azione e nell’illimitato potere che hanno impunemente potuto esercitare nel diacronico snodarsi della Storia. L’oscenità di questo luogo, il suo raccapriccio, sta in fondo tutto qui.

Suggerimento per la visita
(Rubrichetta del a chi vuoi che gliene impipi)
Dunque ordunque, se vi va d’andarci, e sarebbe la prima volta, andateci da soli. Dopo portateci amico/collega/nonna/zio, ma appunto, dopo. È tutta un’altra cosa. Se non altro per godervi di sottecchi il terror e la soggezione negli occhi del vostro congiunto, che per un attimo forse vi odierà per averlo portato lì, ma poi non potrà far altro che amarvi, per tutta la vita, pensando che siete maledettamente ganzi a conoscere queste chicche!


giovedì 17 luglio 2014

Galleria d’Arte Moderna: la Villa, la civica collezione, gli scorci del giardino romantico


Parlare della Gam è un po’ come affrontare quegli argomenti monstre sui quali c’è veramente un sacco ma un sacco da dire. Perché se esiste a Milano un luogo dove anche i detrattori più irriducibili di questa città possono veder scricchiolare il loro castello di certezze, e forse che ti forse, pure un po’ cambiare idea, quel luogo è, precisamente, per dirla in maniera estesa e non con quelle sigle che tanto di moda van oggidì nella galassia museale, la Galleria d’Arte Moderna di via Palestro 14.
La civica collezione, sculturea e pittorica, è ospitata in uno degli edifici più fastigiosi di Milano. Trattasi della Villa Belgiojoso poi denominata Villa Reale, opera architettonica di Leopoldo Pollack, allievo del Piermarini, uno dei massimi esponenti del neoclassicismo italiano. Quattro colonne ioniche scandiscono l’ingresso dell’edificio, villa di configurazione suburbana benché, già allora, pienamente cittadina, con un lato su strada e uno interno, affacciato al meraviglioso giardino, un luogo da sogno di cui tra qualche riga diremo (uso il plurare perché nella mia testa siamo in tanti).
L’edificio stesso è un manuale tridimensionale del Neoclassicismo: il cortile d’onore, il bugnato pulito e razionale, la sequenza di colonne; con l’acme del retro, vero e proprio lato forte della struttura, non solo per l’eccellente affaccio sul giardino. Degna di nota è sicuramente la balaustra che perimetra il tetto della villa, da cui fanno capolino numerose sculture realizzate dalle stesse maestranze attive nel cantiere della Fabbrica del Duomo, su progetto di – udite udite – Giuseppe Parini, a cui si deve il mitologico programma iconografico della Villa. Quando fu che appresi del contributo del buon abate Parino alla realizzazione dell’edificio, forse il più bello della città di Milano, venni colta da vertigine: e questo perché, per vicende legate alla mia biografia scombinatella, infinito bene voglio al poeta di Bosisio, milanese non di nascita ma d’adozione, Maestro di ironia, e scusate se è poco, nonché precursore di elementi di lotta di classe (ora mi levano il 30 in letteratura, tanto, esame più esame meno!), caustico e puntuto dissacratore dell’azzimata e affettata nobiltà settecentesca (ogni epoca ha del resto i suoi gommini del tergi) con cui, purtuttavia, anche per ragioni di sopravvivenza, aveva forzosamente a che fare; purtroppo è sempre difficile non sporcarsi di merda. Dello stretto rapporto Parini/aristocrazia è prova anche la stessa partecipazione al progetto costruttivo di questo villone, chiaramente destinato a esponenti dell’upper class, mica ai servi ricoverati nelle infime stanze, infelici e maltrattati, quelli con cui Parini solidarizza ne Il Giorno; un villone che andò peraltro a ospitare, nel lasso di tempo in cui fu proprietà bonapartesca, la Paolina dal Canova ritratta addivanata.

Dopo questa digressione letteraria, veniamo ora all’interno della villa: i suoi ambienti, raccordati dallo scalone monumentale, sono anch’essi eccelsi, e non solo per le opere d’arte che custodiscono, ma per i loro soffitti, gli stucchi dorati, gli affreschi e le decorazioni, come la magniloquente Sala da Ballo coi suoi pomposi lampadari. La civica raccolta annovera testimonianze artistiche italiane dal Canova ai primi scoppiettii futuristi, in una enfilade di sale superbe altamente illuminate dagli ampi finestroni (con fresche visuali sul parco), cosa che in taluni casi non giova alla fruizione delle opere pittoriche, specie di quelle più crepuscolari; ma non importa. Onore all’architettura che si lascia pervadere dalla luce, cosa che nell’era elettrica si è imperdonabilmente dimenticata, come se la luce artificiale potesse o addirittura dovesse sostituire quella naturale. Dopodiché, sul fascino che può esercitare l’Ottocento artistico italiano fate vobis: a me non fa proprio impazzire, eh, pur riconoscendone la grandiosa qualità, sia mai. Però son gusti, e in ogni caso non si può dire che questa carrellata di super pittori non mi mova e non mi appassioni. Poi c’è sicuramente chi si incanta percorrendo il corridoio di sculture cerose di Medardo Rosso, come la mia supercollega.
Mi appassionano molto molto però le miniature esposte al piano terra, luxury toys degli aristocratici del tempo, dipinte con una minuzia a dir poco spaventosa (da segnalare che una coeva, raccolta similare è ospitata al Museo Poldi Pezzoli). Personalmente poi trovo irrinunciabile l’ultimo piano della Gam, il sottotetto dai pavimenti parquettati e scricchiolanti ove ha sede la raccolta Grassi, come la sottostante collezione Vismara dal respiro internazionale e assai blasonato: Morandi, Cézanne, van Gogh con le sue acquarellate donne bretoni (avete presente il quadro scopiazzato da Émile Bernard? quello, bravi, ecco, van Gogh qui è stato un eccelso copione). E poi Ensor, in un quadro apparentemente molto composto, un vaso di fiori poggiato su un centrino di pizzo, ma condotto con una vaga intemperanza della mano e del tratto che presagisce gli scenari irregolari e grotteschi della sua arte. E poi la chicca vera, il paesaggio di Utrillo, cacchio, con quel suo lampione magistrale, roba da perdere i sensi. Questo Utrillo emozionante, per me, vale già tutta la visita.
Quando poi arrivate all’ultimo piano, superando il mezzanino con la vetrinetta in cui sono esposte le statuette di Buddha dalle mani sottili, fisse in pose ipnotiche (talmente sottili che hanno in molti perso le dita), specie se è estate, complice il caldo, può darsi voi siate vagamente stanchi: e allora non posso che suggerire una sosta sulle sedie in tubolari d’acciaio e tela nera alla Mies van der Rohe sparse, per la gioia del visitatore, per le sale della Grassi, sulle quali adagiare il proprio tergo è un’emozione, perché c’è sempre la paura che si ribaltino, che non reggano, e che si richiudano con voi e il vostro culo dentro, facendovi atterrare con fracasso mattacchione sul già parlante parquet. Vorrete mica fare una figura di merda davanti a Cézanne? E quando vi rimettete in piedi alla fine siete più stanchi di prima, perché non avete riposato per un cazzo, rigidi e contratti, intenti a non farvi fottere dalla (s)comoda poltroncina (pur godendovi poi il trionfo interiore: alla fine ho vinto io, sediolinadesign dimmerda).

Ma la bellezza vera della Gam, come abbiamo già in parte anticipato (nella mia testa siamo sempre in tanti), si concentra nel dialogo che la dimora allestisce con il suo giardino, e in ultima analisi nel parco stesso, luogo da sogno che più da sogno non si può. Innanzitutto si tratta del primo parco realizzato in Milano secondo i dettami del pittoresco: avventurarsi per i suoi viali è una passeggiata di scoperte avvincenti, distribuite attorno al laghetto dai contorni sinuosi, con l’acqua ora mossa a cascata ora immobile, a lasciare spazio agli altri rumori della natura. Un piccolo bosco, misurato e raccolto, che lascia obliare in maniera così perfetta e tonda il traffico di là fuori, e la città vorticosa che lo circonda. Un giardino all’inglese con un percorso botanico ricchissimo, che include più di cinquanta specie, fuse magicamente in un meraviglioso e accordato concerto di verde, che è una gioia per gli occhi e per l’anima. E del giardino all’inglese, i giardini della Gam contemplano tutti gli immancabili topoi: i ponticelli di legno, le vedute affascinanti, le salite ora ripide e rocciose, l’acqua scintillante al sole in cui si inzuppano le foglie delle piante e dei rami cresciuti al bordo. Un luogo magico insomma, un cosmo miracoloso appartenente a un altro mondo, forse trapiantato dall’era del Mito. L’idea di essere in un mitico Altrove è d’altra parte suggerita anche dalle presenze archittoniche sparse per il giardino: statue interrotte nella loro integrità, ma soprattutto il tempietto circolare, trionfo romantico in un giardino romantico. Pura meraviglia.

Questo è il luogo milanese migliore per il vostro sabato mattina, specie se è primavera e il giardino è bagnato dal sole, sia che siate in compagnia di voi stessi o di qualcuno a cui volete ben. Sappiate però che: al momento l’ingresso al museo è gratuito (al momento)*, poiché, com’ebbi di rimembrare con un dotto e gentilissimo custode della Villa, esso, ospitando una raccolta civica, esprime, attraverso la gratuità del suo accesso, la volontà d’una fruizione pubblica recata in offerta alla cittadinanza, secondo un ideale di formazione e di educazione culturale per tutti. È davvero singolare invece scoprire che il parco della Gam sia accessibile soltanto (quantomeno in linea teorica oserei dire eh!), come illustra un cartello affisso al ferro battuto del suo portone, ai minori di anni 12 e agli adulti che li accompagnano. Davvero. E temo che in un accesso di imbecillità il comune di Milano vada anche drammaticamente fiero di questa trovata. Che è invece discriminatoria. Ammetto qui con tutto il candore di cui sono capace, che questo divieto l’ho aggirato, più e più volte, assumendomi anche la responsabilità di farlo violare alle persone che eran di volta in volta con me, milanes (o più o meno insomma) e anche forestieri. E so intimamente di avere fatto non bene, di più. Perché ho regalato a costoro degli attimi meravigliosi, e delle avventure dello sguardo indimenticabili. Qui, a Milano, nella mia città. Un legittimo esproprio culturale, e non dico che lo rifarei perché lo rifarò, sicuramente. Dei divieti ingiusti bisogna impiparsene. Sul serio: par normale tutto ciò? Immedesimatevi in un undicenne (vabbè su, almeno provateci), che ci ha giocato fino all’altroieri; poi – puff!, arriva il dodicesimo compleanno, manco il tempo di spengere le candeline sulla torta che è costretto a sloggiare. Ma vi pare? E poi detto fra noi, che volete gliene freghi ai moccolosi di questa bellezza? I marmocchi son felici anche a ravanare nei giardinetti sottocasa giocando con le cacche dei cani e raccogliendo margheritine. Lasciamoli lì, o portiamoli anche qui, per carità, ma non si vieti a nessuno questo contatto con la natura, questa possibilità, che è imperdibile, di essere così ‘immersi’, e non è un’esagerazione, perché questa è davvero un’immersione nella natura, tra le foglie, le ombreggiature, gli alberi, la quiete. Che è il preciso proposito, qui pienamente raggiunto e realizzato, che sottende il giardino romantico. Perché privare un ragazzino, un adulto, un anziano di tutto ciò? Non ha senso. Il mio consiglio è: andateci in questo posto, andiamoci e prendiamocelo. È veramente, forse, il luogo più bello e straordinario di questa città, quell’interlinea di verità di cui dobbiamo appropriarci, diamine, facendone un luogo preziosamente familiare. Ci si vada, da soli o in compagnia, ma ci si vada. E ci si torni, e torni ancora. Ci si vada alla Gam e si passeggi nel suo giardino, scoprendone di volta in volta scorci diversi e rinverdendo lo stupore e l’incanto per l’abbraccio dolce e narrativo della natura. Per vedere, ancora una volta, e scoprirlo, e portaselo nel cuore e negli occhi, quanto bella è Milano.









  

*EDIT - [8/2014]
Come per tutti i Musei Civici della città, l’ingresso è divenuto testé a pagamento. Secondo me anche il dotto custode è incazzato, trasformato ingloriosamente in bigliettaio. Il suggerimento è di succiare il più possibile le occasioni di entrarvi gratuitamente: tutti i giorni dall’ultima ora di apertura, magari smezzando l'esplorazione in più riprese. E fare cippirimerlo a quei stronzi del Comune di Milano. Che dire, il vento è cambiato davvero, e porta in giro un inconfondibile odore di merda.

domenica 22 giugno 2014

Milano diventa un’altra cosa – Stazione Garibaldi, Torre Unicredit, piazza Gae Aulenti, nessi e connessi


Ordunque, avendo una storia a distanza, sto affilando come una lama la mia conoscenza delle stazioni ferroviarie milanesi. Vi avevo già detto qualcosa a proposito della Stazione Centrale, ma invero la stazione che frequento di più è quella di Porta Garibaldi. Nulla da dire in particolare sulla stazioncella, piccina e senz’altro meno dispersiva della Centrale; c’è chi infatti la preferisce per questo. Quello che è davvero degno d’attenzione – non solo per i milanès in fondo, ma anche per chi è interessato all’architettura d’oggidì e alle trasformazioni urbane – è l’intorno della stazione, il quartiere che, come da titolo, sta trasformando Milano in: un’altra cosa.
Il modo migliore per accorgersene è arrivarci in auto, in stazione, dal cimitero Monumentale. Oggi – domani potrebbe già essere, per l’appunto, un’altra cosa – questo distretto di città è un cantierone tortuoso e incasinato assai, roba che nel tratto di strada precedente potrebbe quasi strapparvi un bestemmione mentre siete alla guida, specie se, come me, al volante non siete esattamente degli sgamati.
Poi però vi avvicinate pian piano ai nuovi palazzoni, recumbenti su piazza Gae Aulenti: e anche il cuore indurito del guidatore incacchiato non può, non può non farsi rapire da ciò che gli si para davanti. Uno spettacolo irreale, che personalmente mi fa scoppiare a ridere (vabbè sì, questa è l’insania che c’è in me) forse come reazione di distensione dopo la concentrazione della guida. E allora rido, sì, me la rido di brutto, perché sono arrivata in stazione e ce l’ho fatta, e me la rido, scoppio a ridere e me la rido dentro alla grande perché guardo dal parabrezza la mia città e vedo cosa diventa, e me la rido, e penso che Milano in fondo è la mia sposa (cit.) ed è bello accorgersi di essere ancora innamorati persi del proprio coniuge, capace di darci ancora grandi soddisfazioni. 

Già, ma che diavolo si vede dal parabrezza?
Chiedo scusa, ho divagato, ora lo racconto cercando di recuperare la lucidità.
La prima visione è quella della Torre Unicredit, il grattacielo più alto d’Italia*, opera dell’italo-argentino César Pelli, circondato dai suoi più modesti colleghi. La Torre Unicredit è un complesso di tre grattacieli, che descrivono con le loro planimetrie un semicerchio, assecondando la forma circolare, volutamente classica, di piazza Gae Aulenti. 
Uh, il grattacielo, che novità! Piaccia o non piaccia però, costoro c’han maledettamente preso: a meno di due anni dalla realizzazione sta sul serio diventando il nuovo simbolo di Milano, col suo pinnacolo grafico che si vede anche dalla periferia della città, e pure dalle tangenziali, guglia in una città nota per le guglie. D’accordo, l’idea del grattacielo non è originale e direi pure vecchia (d’altra parte, porino, il buon Pelli vi ricordo è classe 1926, non proprio un giovanotto). E manco è originale l’avervi allocato una banca, l’Unicredit, su cui puoi contare finché non fallisce. Insomma, il solito arrogante saggio di finanzcapitalismo. Era meglio una onlus, un circolo arci, o un circolo della birra diamine, andava bene pure quello.
E invece no: tutta la zona di piazza Gae Aulenti sembra nata per il trastullo dei gommini del tergi (per conoscere il significato di questa espressione, citofonare Egidio ore pasti: ne è lui l’involontario coniatore). All’ingresso della Torre Unicredit, ad esempio, troneggia Red, declinazione commerciale del mondo delle già fichette librerie Feltrinelli prontamente adattata al contesto: pochi libri ma vacui, atmosfera da bistrot fintofrancese, e un cesso preceduto dalle parole di – oh! – Catherine Zeta-Jones, moglie del figlio di Spartacus, bella snappola lei per carità, ma citarne le massime in una libreria no, che ci spiega come il segreto di un buon matrimonio sia quello di avere un bagno a testa, uno per consorte. Bella frase, io non riuscirò manco a comprarmi un magazzino delle scope per risolvermi il problema della casa, raddoppiare il numero delle tazze del cesso è francamente l’ultima delle mie preoccupazioni. Ed è stato qui esattamente qui che, tra le visioni sconfortanti di radical gommini dall’aria annoiata dai loro agi, con sottobraccio Repubblica e Sole 24 Ore, che con dita untazzate di croissant sfogliano le pagine dei libri in esposizione, sovente umettandosi con la loro regal saliva il regal polpastrello, ho pensato che il se il buon Giangiacomo (Feltrinelli) avesse veduto, o anche solo immaginato tutto questo, sarebbe corso ad appendersi al traliccio sotto al quale trovò in altro modo la morte, cercandone a piene mani il fascio d’alta tensione.

Ma se descrivo tutto questo, non è per disgustarvi, lo giuro. Perché nonostante tutto a me questa piazza Gae Aulenti, così grigia nei suoi eleganti toni di grigio, piace. E obbiettivamente non si può dire che sia brutta o non riuscita, anzi. Ci si fa una gradevole passeggiata in mezzo, attraversando su di una passerella una fontana dall’acqua tremolante ai cui bordi corre un sedile per sostare (e anche per bere il caffè: fatevi furbi, portatevi un thermos, dei cioccolatini, mamma e papà e i vostri amici, e sarà festa senza aver foraggiato il Red là di fronte). Vista da lì, la guglia della torre Unicredit sembra un ago non che gratta, ma che punge il cielo.
Ma la sortita prosegue, tra le vetrine dei vari negozi, alcuni già aperti e altri che poi apriranno. Ma non sono queste le cose cui prestare attenzione. Moderatamente carina è l’idea degli ottoni, il massimo della minchiata simpatica, con in alto un suggestivo squarcio che inquadra sempre lui, il pinnacolone. Poi da qui passeggiando si vede il Bosco Verticale, progetto dello Studio Boeri consistente anch’esso di due grattacieli. Ma non fatevi ingannare dalle idee pseudodemocratiche di cui vorrebbe farsi latore: ‘più verde per tutti, più ossigeno alla città’; balle, non è verde cittadino, non è verde per passeggiare, leggere, giocare, darsi appuntamento. Se lo godranno i gomminoni del tergi che c’andranno ad abitare, insieme a cicale, cavallette, zanzare e grilli. Ma ricordino i gommini: per queste bestiole il passo dalla pianticella sul terrazzo alla vostra camera da letto sarà breve, molto breve.
Più bello il lato sulla destra di chi è arrivato alla piazza dalla Stazione Garibaldi, attraverso il sottopasso o le scale mobili coperte dalla tettoia. I palazzi, anche parecchio pregevoli e nuovi, tornano a misura (non affatto male la Corte Verde di Corso Como, di Cino Zucchi, cugina di largo Zanuso, progetto dello stesso studio e si vede): e la cosa migliore è la discesa verso corso Como, architettonicamente ben azzeccata e piacevole (anche qui comunque apriranno presto negozi luzzuosi). E girando ancora verso destra, la vera meraviglia: il giardino Anna Politkovskaja, in realtà una strisciolina di verde, ma così graziosa e defilata e così surreale nello spazio che si è ritagliata dietro a questi palazzoni lucidi e nuovi di pacca, che non può non commuovere, per le sue panchine, i cespugli, le roselline, i sentierini ed anche naturalmente per la buona persona a cui è intitolato.

Con questo si conclude il giro di Porta Nuova, nel complesso piacevole, dai. L’immagine che mi tengo è quella, arrivando in auto, dei palazzoni grigi dal profilo aguzzo che si stagliano nel grigio del cielo plumbeo della città: una sorta di gara tra sfumature, giusto interrotta dalle lucine rosse che bordeggiano per questioni di sicurezza i punti estremi degli edifici, immagine vagamente apocalittica. Anche le gru dei cantieri ancora aperti sembrano amalgamarsi nel paesaggio, simbolo concreto della città in trasformazione, della Milano che diventa, si diceva, un’altra cosa. Io le gru lascerei lì anche quando sarà tutto finito.    
Per il resto s’è già in parte detto: una banca a guardarci dall’alto verso il basso, cantieri a volte fermi perché le imprese sono candidamente insolventi, le mani in pasta di Ligresti.
Ecco perché tifo per le cavallette (già avvistata qualcuna in zona). E per i topi. Già, di topi qui ce ne sono parecchi, nel parcheggio davanti alla stazione, lato Tecnimont. Sfrecciano di qua e di là, si dicon cose e corrono via, ravanano nella spazzatura, fanno simpatiche scorribande. E anche questa è una cartolina di Milano: il grattacielo Unicredit con la sua algida cuspide e in basso la vivace comunità di ratti che saccheggia, in un trionfo d’anarchia e collettivismo, i cassonetti dell’immondizia. E io, appunto, tifo per i topi.







* EDIT – [12/2014]
Ebbene, la Torre Unicredit non è più l’edificio più alto d’Italia. L’illustre (?) primato è rimasto in Milano, conquistato da un grattacielo in zona vecchia fiera, opera d’un noto architetto nipponico, Arata Isozaki, il quale dimostra dunque di averlo più lungo. Pelli dovrà farsene una ragione. Una domanda purtuttavia si fa strada ficcante: serviva proprio questo grattacielo a sezione sottile, che ha peraltro sminchiato il profilo architettonico mediolano, visto che ovunque tu sia lui appare in tutta la sua banale forma rettangulea? È originale forse? Nuovo? Azzardo: bello? O quantomeno dotato d’un nesso concettuale, per quanto opinabile, che lo lega alla città di Milano, come il pinnacolo della Torre Pelli vuol essere citazione delle guglie del Domm? La risposta è no, no, no e ancora no, nulla di tutto questo è la Torre Isozaki. Che per rendere omaggio ai natali del suo fine creatore, sarà da oggi ribattezzata, in modo più calzante, Soshito Nakagata.