Parlare della Gam è un po’ come affrontare quegli argomenti monstre sui quali c’è veramente un sacco ma un sacco da dire. Perché se esiste a Milano un luogo dove anche i detrattori più irriducibili di questa città possono veder scricchiolare il loro castello di certezze, e forse che ti forse, pure un po’ cambiare idea, quel luogo è, precisamente, per dirla in maniera estesa e non con quelle sigle che tanto di moda van oggidì nella galassia museale, la Galleria d’Arte Moderna di via Palestro 14.
La civica collezione,
sculturea e pittorica, è ospitata in uno degli edifici più fastigiosi di Milano.
Trattasi della Villa Belgiojoso poi denominata Villa Reale, opera architettonica
di Leopoldo Pollack, allievo del Piermarini, uno dei massimi esponenti del
neoclassicismo italiano. Quattro colonne ioniche scandiscono l’ingresso
dell’edificio, villa di configurazione suburbana benché, già allora, pienamente
cittadina, con un lato su strada e uno interno, affacciato al meraviglioso
giardino, un luogo da sogno di cui tra qualche riga diremo (uso il plurare
perché nella mia testa siamo in tanti).
L’edificio stesso è un
manuale tridimensionale del Neoclassicismo: il cortile d’onore, il bugnato
pulito e razionale, la sequenza di colonne; con l’acme del retro, vero e
proprio lato forte della struttura, non solo per l’eccellente affaccio sul
giardino. Degna di nota è sicuramente la balaustra che perimetra il tetto della
villa, da cui fanno capolino numerose sculture realizzate dalle stesse
maestranze attive nel cantiere della Fabbrica del Duomo, su progetto di – udite
udite – Giuseppe Parini, a cui si deve il mitologico programma iconografico
della Villa. Quando fu che appresi del contributo del buon abate Parino alla
realizzazione dell’edificio, forse il più bello della città di Milano, venni
colta da vertigine: e questo perché, per vicende legate alla mia biografia
scombinatella, infinito bene voglio al poeta di Bosisio, milanese non di
nascita ma d’adozione, Maestro di ironia, e scusate se è poco, nonché
precursore di elementi di lotta di classe (ora mi levano il 30 in letteratura,
tanto, esame più esame meno!), caustico e puntuto dissacratore dell’azzimata e
affettata nobiltà settecentesca (ogni epoca ha del resto i suoi gommini del
tergi) con cui, purtuttavia, anche per ragioni di sopravvivenza, aveva forzosamente
a che fare; purtroppo è sempre difficile non sporcarsi di merda. Dello stretto
rapporto Parini/aristocrazia è prova anche la stessa partecipazione al progetto
costruttivo di questo villone, chiaramente destinato a esponenti dell’upper class, mica ai servi ricoverati
nelle infime stanze, infelici e
maltrattati, quelli con cui Parini solidarizza ne Il Giorno; un villone che andò peraltro a ospitare, nel
lasso di tempo in cui fu proprietà bonapartesca, la Paolina dal Canova ritratta
addivanata.
Dopo questa digressione
letteraria, veniamo ora all’interno della villa: i suoi ambienti, raccordati
dallo scalone monumentale, sono anch’essi eccelsi, e non solo per le opere
d’arte che custodiscono, ma per i loro soffitti, gli stucchi dorati, gli affreschi e le
decorazioni, come la magniloquente Sala da Ballo coi suoi pomposi lampadari. La
civica raccolta annovera testimonianze artistiche italiane dal Canova ai primi
scoppiettii futuristi, in una enfilade di sale superbe altamente illuminate dagli ampi
finestroni (con fresche visuali sul parco), cosa che in taluni casi non giova
alla fruizione delle opere pittoriche, specie di quelle più crepuscolari; ma
non importa. Onore all’architettura che si lascia pervadere dalla luce, cosa
che nell’era elettrica si è imperdonabilmente dimenticata, come se la luce
artificiale potesse o addirittura dovesse sostituire quella naturale. Dopodiché,
sul fascino che può esercitare l’Ottocento artistico italiano fate vobis: a me
non fa proprio impazzire, eh, pur riconoscendone la grandiosa qualità, sia mai.
Però son gusti, e in ogni caso non si può dire che questa carrellata di super
pittori non mi mova e non mi
appassioni. Poi c’è sicuramente chi si incanta percorrendo il corridoio di
sculture cerose di Medardo Rosso, come la mia supercollega.
Mi appassionano molto molto
però le miniature esposte al piano terra, luxury
toys degli aristocratici del tempo, dipinte con una minuzia a dir poco spaventosa
(da segnalare che una coeva, raccolta similare è ospitata al Museo Poldi
Pezzoli). Personalmente poi trovo irrinunciabile l’ultimo piano della Gam, il
sottotetto dai pavimenti parquettati e scricchiolanti ove ha sede la raccolta Grassi,
come la sottostante collezione Vismara dal respiro internazionale e assai
blasonato: Morandi, Cézanne, van Gogh con le sue acquarellate donne bretoni (avete
presente il quadro scopiazzato da Émile
Bernard? quello, bravi, ecco, van Gogh
qui è stato un eccelso copione). E poi Ensor, in un quadro apparentemente molto
composto, un vaso di fiori poggiato su un centrino di pizzo, ma condotto con
una vaga intemperanza della mano e del tratto che presagisce gli scenari
irregolari e grotteschi della sua arte. E poi la chicca vera, il paesaggio di
Utrillo, cacchio, con quel suo lampione magistrale, roba da perdere i sensi. Questo
Utrillo emozionante, per me, vale già tutta la visita.
Quando poi arrivate
all’ultimo piano, superando il mezzanino con la vetrinetta in cui sono esposte
le statuette di Buddha dalle mani sottili, fisse in pose ipnotiche (talmente
sottili che hanno in molti perso le dita), specie se è estate, complice il
caldo, può darsi voi siate vagamente stanchi: e allora non posso che suggerire
una sosta sulle sedie in tubolari d’acciaio e tela nera alla Mies van der Rohe
sparse, per la gioia del visitatore, per le sale della Grassi, sulle quali adagiare
il proprio tergo è un’emozione, perché c’è sempre la paura che si ribaltino,
che non reggano, e che si richiudano con voi e il vostro culo dentro, facendovi
atterrare con fracasso mattacchione sul già parlante parquet. Vorrete mica fare una
figura di merda davanti a Cézanne? E quando vi rimettete in piedi alla fine
siete più stanchi di prima, perché non avete riposato per un cazzo, rigidi e
contratti, intenti a non farvi fottere dalla (s)comoda poltroncina (pur
godendovi poi il trionfo interiore: alla
fine ho vinto io, sediolinadesign dimmerda).
Ma la bellezza vera della Gam, come abbiamo già in parte anticipato (nella mia testa siamo sempre in tanti), si concentra nel dialogo che la dimora allestisce con il suo giardino, e in ultima analisi nel parco stesso, luogo da sogno che più da sogno non si può. Innanzitutto si tratta del primo parco realizzato in Milano secondo i dettami del pittoresco: avventurarsi per i suoi viali è una passeggiata di scoperte avvincenti, distribuite attorno al laghetto dai contorni sinuosi, con l’acqua ora mossa a cascata ora immobile, a lasciare spazio agli altri rumori della natura. Un piccolo bosco, misurato e raccolto, che lascia obliare in maniera così perfetta e tonda il traffico di là fuori, e la città vorticosa che lo circonda. Un giardino all’inglese con un percorso botanico ricchissimo, che include più di cinquanta specie, fuse magicamente in un meraviglioso e accordato concerto di verde, che è una gioia per gli occhi e per l’anima. E del giardino all’inglese, i giardini della Gam contemplano tutti gli immancabili topoi: i ponticelli di legno, le vedute affascinanti, le salite ora ripide e rocciose, l’acqua scintillante al sole in cui si inzuppano le foglie delle piante e dei rami cresciuti al bordo. Un luogo magico insomma, un cosmo miracoloso appartenente a un altro mondo, forse trapiantato dall’era del Mito. L’idea di essere in un mitico Altrove è d’altra parte suggerita anche dalle presenze archittoniche sparse per il giardino: statue interrotte nella loro integrità, ma soprattutto il tempietto circolare, trionfo romantico in un giardino romantico. Pura meraviglia.
Questo è il luogo milanese migliore per il vostro sabato mattina, specie se è primavera e il giardino è bagnato dal sole, sia che siate in compagnia di voi stessi o di qualcuno a cui volete ben. Sappiate però che: al momento l’ingresso al museo è gratuito (al momento)*, poiché, com’ebbi di rimembrare con un dotto e gentilissimo custode della Villa, esso, ospitando una raccolta civica, esprime, attraverso la gratuità del suo accesso, la volontà d’una fruizione pubblica recata in offerta alla cittadinanza, secondo un ideale di formazione e di educazione culturale per tutti. È davvero singolare invece scoprire che il parco della Gam sia accessibile soltanto (quantomeno in linea teorica oserei dire eh!), come illustra un cartello affisso al ferro battuto del suo portone, ai minori di anni 12 e agli adulti che li accompagnano. Davvero. E temo che in un accesso di imbecillità il comune di Milano vada anche drammaticamente fiero di questa trovata. Che è invece discriminatoria. Ammetto qui con tutto il candore di cui sono capace, che questo divieto l’ho aggirato, più e più volte, assumendomi anche la responsabilità di farlo violare alle persone che eran di volta in volta con me, milanes (o più o meno insomma) e anche forestieri. E so intimamente di avere fatto non bene, di più. Perché ho regalato a costoro degli attimi meravigliosi, e delle avventure dello sguardo indimenticabili. Qui, a Milano, nella mia città. Un legittimo esproprio culturale, e non dico che lo rifarei perché lo rifarò, sicuramente. Dei divieti ingiusti bisogna impiparsene. Sul serio: par normale tutto ciò? Immedesimatevi in un undicenne (vabbè su, almeno provateci), che ci ha giocato fino all’altroieri; poi – puff!, arriva il dodicesimo compleanno, manco il tempo di spengere le candeline sulla torta che è costretto a sloggiare. Ma vi pare? E poi detto fra noi, che volete gliene freghi ai moccolosi di questa bellezza? I marmocchi son felici anche a ravanare nei giardinetti sottocasa giocando con le cacche dei cani e raccogliendo margheritine. Lasciamoli lì, o portiamoli anche qui, per carità, ma non si vieti a nessuno questo contatto con la natura, questa possibilità, che è imperdibile, di essere così ‘immersi’, e non è un’esagerazione, perché questa è davvero un’immersione nella natura, tra le foglie, le ombreggiature, gli alberi, la quiete. Che è il preciso proposito, qui pienamente raggiunto e realizzato, che sottende il giardino romantico. Perché privare un ragazzino, un adulto, un anziano di tutto ciò? Non ha senso. Il mio consiglio è: andateci in questo posto, andiamoci e prendiamocelo. È veramente, forse, il luogo più bello e straordinario di questa città, quell’interlinea di verità di cui dobbiamo appropriarci, diamine, facendone un luogo preziosamente familiare. Ci si vada, da soli o in compagnia, ma ci si vada. E ci si torni, e torni ancora. Ci si vada alla Gam e si passeggi nel suo giardino, scoprendone di volta in volta scorci diversi e rinverdendo lo stupore e l’incanto per l’abbraccio dolce e narrativo della natura. Per vedere, ancora una volta, e scoprirlo, e portaselo nel cuore e negli occhi, quanto bella è Milano.
*EDIT - [8/2014]
Come per tutti i Musei Civici della città, l’ingresso è
divenuto testé a pagamento. Secondo me anche il dotto custode è incazzato,
trasformato ingloriosamente in bigliettaio. Il suggerimento è di succiare il
più possibile le occasioni di entrarvi gratuitamente: tutti i giorni
dall’ultima ora di apertura, magari smezzando l'esplorazione in più riprese. E fare
cippirimerlo a quei stronzi del
Comune di Milano. Che dire, il vento è cambiato davvero, e porta in giro un
inconfondibile odore di merda.