giovedì 25 giugno 2015

RdP – Incontro a Milano con Juan Carlos Monedero: Los reyes me gustan solo en los cuentos

Cari amici del bloggo, eccoci a una nuova puntatona della nostra rubrica del piccione, che intendiamo iberizzare per l’occasione in El rubro de la paloma, in quanto ciò che stiamo per raccontare ha a che fare proprio con la España. Ma come, qui, a Milano? Ebbene sì.

Che ci racconta il piccione Ambrogio, cos’ha visto con quei suoi occhietti persi?
Ci racconta d’un incontro occorso pochi giorni fa in quel della Fondazione Feltrinelli, sita in via Romagnosi, traversa di via Manzoni lato Teatro alla Scala, per raggiungere la quale si effettua insomma già una una piacevole camminata per le vie della città mediolanense. Protagonista dell’iniziativa era Juan Carlos Monedero, madrileno, ideologo e fondatore del partito di Podemos. Insomma, avrete già capito perché si trattava d’una cosa imperdibile.
E valore aggiunto dell’iniziativa era la presenza d’un moderatore d’eccezione, come recitava la locandina dell’incontro “sociologo presso l’Università Bicocca di Milano”, ma anche grande amico del mio cognato, una di quelle splendide e rare amicizie che si nutrono d’una felice comunione di idee, pensieri, militanza, quelle amicizie che riescono meravigliosamente non solo a sopravvivere ma proprio a vivere, nel corso degli anni, anche se i protagonisti hanno magari mutato – tra lavoro, luoghi, famiglia – le condizioni di vita in cui l’amicizia era primigeniamente nata. Ma in effetti, a meno che non siate degli strunzi, è molto difficile perdere l’amicizia del mio cognato, che è persona attenta, altruista, generosa. Quanto al nostro ricercatore, si può dire che, anche nella dimensione d’un incontro fugace, ne apprezzerete a pieno la genuina comunicatività, l’empatia, la voglia sincera di sintonizzarsi sull’altro. Ottime premesse insomma per affinare il naso e la vista d’un sociologo.
Peccato solo che, nella grande, fluviale, positiva facondia del buon Monedero, lo spazio per i comprimari moderatori del dibattito sia stato un po’ risicato; ma dal quel poco è ugualmente brillata la qualità dell’intervento del nostro.

Ma andiam con ordine. 
Appuntamento alle 17.20 (non e un quarto o emmezza, proprio e20, badate) con i miei soliti, fantastici sodali, i miei compagni d’avventura, per prepararsi alla traversata della città via metropolitana. Ci si saluta, si cazza allegramente e c’è tempo pure per agguantare al volo un paio di quadrifogli nel sozzo ma comunque verdissimo praticello dell’amena fermata di Uruguay. Saliamo a bordo d’un nuovo treno della rossa, meta piazza Duomo, per poi raggiungere a piedi il luogo dell’incontro, fissato per le ore 18. Potevamo per caso arrivare in ritardo a un appuntamento come questo? ¡Sí que podemos! Ci sono io, è chiaro che arriveremo in ritardo! Sicché giungiamo in corner alla Fondazione Feltrinelli e la saletta è quasi tutta piena... Ma il buon vecchio trucco funziona sempre: basta far vedere che conosciamo personalmente il relatore, che siamo amici allui, e immantinente dei paggi solerti approntano tre sediole per le nostre terga scultoree, accendono un ventilatore per ristorarci e ci offrono anche delle bollicine d'annata. Questo no, scherzavo. La storia dello champagne è una balla. Ad ogni modo riusciamo dunque a prender comodamente posto a  incontro con sommo culo non ancora incipiato.

Ed ecco che… dopo una breve attesa (durante la quale riconosco nel pubblico pure la mia dolcissima profesora Concha, insegnante di spagnolo all’Instituto Cervantes – che meraviglia trovarla qui!) Juan Carlos Monedero finalmente fa la sua entrée nella sala. Di nero vestito, in occhiali rotondi e gilet, incarnato nelle fattezze di Pino Strabioli. Ci piace Pino Strabioli! Ma alla fine ci piacerà un sacco anche Monedero.
Passo felpato, batte le mani verso il pubblico suscitando l’applauso, col fare stilizzato d’un ballerino di flamenco… Mi perdoni per il paragone, comunque c’è molta spagnolità in lui, molta teatralità concentrata, ecco.
E poi incomincia. Non a ballare, ebbene no, ma a parlare, seduto nella cornice della Fondazione Feltrinelli e dei suoi tomi storici, incasellati in mensole bianche incassate che perimetrano le pareti circolari della sala. E che dice, signori.

Ora, non starò certo qui a riportar malamente quanto cristallinamente enunciato dal buon Monedero, in quanto col mio sommario e impreciso resoconto rischierei giustamente di farlo incacchiare più ancora che per avergli dato del flamenchero, e sia mai ch’io incarni la pratica, descritta da Galalai Galalaia nell’incipit del suo Saggiatore,  invalsa, presso chi è ignorante in una tal materia, di voler proprio di quella risolutamente discorrere; anche perché ottimi libri e ottimi articoli – anche del nostro esimio sociologo, sapevatelo! – sono stati vergati al riguardo, con evidente maggiore scientificità di quella che la cojoncella scrivente potrebbe quivi profondere con la sua insipienza. Eppoi val sempre buona l’asserzione tratta dal Tractatus wittgensteiniano per la quale 'su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere' – che messa qui così sembra il consiglio d’una nonna di buon senso, e invece. 
Purtuttavia è interessante appuntare, in questa nostra rubrichetta de la paloma, in forma di note sparse, qualche spunto et suggestione offertici dal Juan Carlos, coll’obbiettivo quantomeno di inquadrare la vicenda di Podemos, nonché di intendere e carpirne i segreti con l’auspicio d’una sua replicabilità. Perché, d’altra parte, è di questo che parliamo. Amici spagnoli, orsù, siate generosi, diteci, come minchia avete fatto?

Ed ecco che, in uno spagnolo declamato (anche questo teatrale assai, è evidente che il nostro ci sa fare – non per nulla è stato uno dei protagonisti della Tuerka), frase per frase, in una scansione dettata da pause utili alla traduzione, il buon Juan Carlos rende a poco a poco il suo spagnolo comprensibile, magicamente e misteriosamente comprensibile, coinvolgendoci, da bravo affabulatore, nel racconto della nascita di Podemos, ma soprattutto nella vivida descrizione del sostrato economico e pure emotivo che ne ha costituito fondamentale premessa; che è quello sul quale il movimento-partito di Podemos ha saputo tracciare un orizzonte di partecipazione, adesione e azione chiaro, netto, necessario.
Dando una risposta a chi si sentiva in colpa per aver perso, per una legge ingiusta e terribile, oltre i limiti del disumano, la propria casa. Dando una risposta a chi si sentiva in colpa per non avere un lavoro, o per averlo precario (d’altra parte,  “se non ti sei messo a studiare cinese su internet alle cinque del mattino, come credi d’aver diritto a rivendicare un lavoro?” – eccerto). Dando una risposta a chi s’affannava a capire come ‘investire’ su sé stesso, ragionando sulla propria ‘redditività’, e sulla propria spendibilità e collocabilità nel mercato del lavoro: un repertorio lessicale mutuato acquiescentemente, senza averne coscienza, dal sistema del capitale, ove ogni cosa è merce. Ad indicare quanto ci siamo finiti dentro, fino al collo, e senza accorgercene. Una bella, inquietante riflessione sulla mercificazione e monetizzazione delle cose. Di ogni cosa (e detto da uno che si chiama Monedero cioè portamonete ehehcome vedete la mia demenza non ha davvero limiti, abbiate pietà). Perfino le emozioni, perfino noi stessi. Noi stessi. C’è un sacco di Marx nelle parole di Monedero, ed è una vera gioia del quoricino ascoltarlo.  
Dando una risposta insomma a chi era preda del miedo. Della paura. A quella gente ‘decente’ – come recita il titolo del suo libro – che non vuole e non se la sente di recidere del tutto i legami, fattisi esili quanto il filo di bava d’una ragnatela, della solidarietà sociale. Del collettivo. E in tempi così duri. Gente decente che non vuole essere mangiata, ma non vuole neanche mangiare. Quelle persone buone vivaddio non individualiste. Ché alla fine lo dicon pure gli adagi popolari: l’unione fa la forza.

Come è riuscita Podemos in tutto ciò? E in quel ‘come’ c’è dentro un mondo. Un mondo sterminato di speranze anche nostre.
La ricetta non è semplice. In punti sparsi: guardare all’esperienza dell’America Latina. A Chavez ad esempio (e qua soddisfatti ammiccamenti a gogo tra il cognato nel pubblico e l’amico ricercatore: grande scena!). Evitare di parlare di ‘destra’ e ‘sinistra’ (ribaltamento dei miei intestini, ma poi Monedero spiega meglio e si fa quasi perdonare – quasi). Avvicinarsi alla ‘mayoría silenciosa’, e farlo con impegno, attraverso tutti i canali. Non solo l’internet, appannaggio vieppiù d’una popolazione ciovane, ma anche attraverso la televisione. La Tuerka Tv e i suoi programmi hanno contribuito a far conoscere i volti delle donne e degli uomini di Podemos, le loro parole, le loro idee. Le loro posizioni. E, naturalmente, grande capacità di Podemos è stata quella di raccogliere l’eredità di un movimento grande e partecipato come il Movimiento 15-M, quello degli indignati. E non era facile incanalare le energie e le nuove coscienze liberatesi in quel momento. Eppure Podemos ce la sta facendo; ma come spiega Monedero ci vuole pure una buona dose di fortuna, di caso favorevole. Non sempre bastano solo gli elementi giusti. È così anche nelle fiabe, del resto: un re incontra una principessa… d’accordo, ma appunto si devono incontrare. E comunque, ha chiosato Monedero, “a me i re piacciono solo nelle fiabe”. E buongesù, quanto non essere d’accordo con lui (e detto da uno con un nome da monarca spagnolo… ok ok la smetto).

Ultimissima nota, e qui entra in gioco il nostro sociologo, è quella che inerisce la natura felicemente ibrida di partito-movimento di Podemos. Perché un partito ha sempre bisogno dell’ossigeno vitale d’una innervatura sociale; e perché un movimento ha sempre bisogno d’una spinta trainante dall’alto, senza la quale piazze piene rimangono inascoltate da governi che, appunto, ‘vanno avanti’. Riassumo molto, impoverendola di parecchio, una bella disamina del nostro ricercatore bicocchiano. Si può fare anche qui? Tutto ciò si può fare anche qui, dove abbiamo vissuto un’atomizzazione della sinistra come neanche le chiese giudaiche in Brian di Nazareth, paragone di Monedero, che è uno scoppiettante e divertente oratore?
La risposta passa per l’avveramento di tutte le condizione enunciate dal buon Monedero. Ma il nostro amico sociologo per certi versi ci rassicura: indicandoci esperienze importanti e belle come i movimenti no tav, no muos e quello contro la privatizzazione della gestione dell’acqua. Grandi battaglie agite da persone con una coscienza, persone decenti che non si sono mosse nella logica dell’intoccabilità del proprio giardino, deviando da una prerogativa nimby, individualista, ma riuscendo al contrario a creare un prezioso network di lotte, di contestazioni, di battaglie non isolate ma vicine, unite, sovrapponibili. Partecipate insieme, in una logica collettiva. È questo fermento che va coltivato, sperando di averne forza e intelligenza, come le donne e gli uomini di Podemos. Per il lavoro, per la casa, per la salute, per l’ambiente, per tutti quei diritti fondamentali dell’uomo enunciati in modo avanzato nella Dichiarazione universale dei diritti umani del ’48. Con forza, dicevamo, e intelligenza. E – ha sottolineato più volte Monedero – anche con emoción… Del resto semo latini, ci vogliamo mettere un po’ di corazón?

Questa rubrica del piccione ha voluto dare conto di questo, di una importante e utile conversazione che si è svolta in Milano appena qualche sera fa, nella cornice limpida e tranquilla di uno degli ultimi giorni di questa ormai conclusa primavera. Il teatro, come ricordato, è stato la Fondazione Feltrinelli: un luogo che rende giustizia al suo nome ricordando chi era davvero Feltrinelli, 'bibliofilo ideologico', come chi lo conosce bene lo definì, che sarà pure stato un padre padrone, come lo descrivono i collaboratori dell’epoca, ma che non avrebbe mai pasteggiato da Reds sotto l’Unicredit con in mano un libro di Pansa. La Biblioteca Feltrinelli nasceva come archivio di documenti e testi sul socialismo internazionale e sul movimento operaio. Questo aveva in testa Giangiacomo. Dall’inizio alla fine: il suo ultimo irrealizzato progetto, inseguito a lungo e concepito durante i suoi viaggi a Cuba, ove spostò il baricentro della sua identità da editore a militante, d’un libro-diario di Fidel Castro, buondio ce lo conferma. E per carità, è vero che non disdegnò di dedicarsi a quella che egli stesso chiamava ‘letteratura di consumo’; ma cristoddeo, la letteratura di consumo di allora erano gli autori latino-americani e la narrativa europea (scovati grazie a cacciatori di libri che erano scrittori essi stessi nonché editati e tradotti da gente come Bianciardi, Bianciardi signori, mannaggia la mignotta!). Mica l’oroscopo, le biografie di Brosio, la ‘letteratura femminile’ (oh, giuro che è chiamata così all’interno delle Feltrinelli!) e la dieta del muco. Che poi è tutta la merda che impesta, oggi, le commercialissime librerie che di Giangiacomo Feltrinelli portano il cognome. Voglio dire, allora questa merda me la compro in Esselunga, che tanto c'è anche lì e costa pure di meno. Per questo è stata pura gioia, al termine dell’incontro, avvicinarmi alle succitate mensole piene di libri che facevano da fondale ai relatori e leggere sul dorso largo del primo, vecchio librone rilegato guardato a caso: “Compère-Morel. Grand Dictionnaire Socialiste”.
Una visione per me bellissima e pure un po’ emozionantella, ciliegina d’un pomeriggio-sera milanese in ottima compagnia e pieno di belle parole, intenso, utile e ossigenante. Vero.


Notasi posa flamenco di Monedero e a sinistra (sinistra ovviamente) il nostro sociologo


mercoledì 17 giugno 2015

La carta, l’inchiostro, il legno e i cristalli: la Biblioteca Nazionale Braidense


A Milano c’è un luogo che merita la qualifica di gioiello, ma gioiello con la G maiuscola, per la sua grandiosa nobiltà nonché per le superbe fattezze estetiche in cui si concreta.
Stiamo parlando della Biblioteca Nazionale Braidense, e nella fattispecie della sua sala più sublime: l’antichissima Sala Maria Teresa, titolata alla Sovrana austriaca illuminata che, nel 1770, volle dare vita a questa importante istituzione, realizzata unendo l’antica biblioteca del soppresso ordine degli amici di Gesù – di cui vi ricordo come abbiam detto nelle puntate precedenti la Braida era Collegio – a un importante lascito librario d’un conte milanese, con l’obbiettivo di aprire alla cittadinanza una nuova fonte del sapere. Una sovrana che, oltreché ‘illuminata’ definirei proprio luminosa, visto che durante la sua reggenza fece cose nel mio sistema di pensiero considerate molto belle e importanti: rese obbligatoria l’istruzione primaria, che voleva rendere accessibile a tutti,  ridimensionò i poteri del clero riaffermando il giurisdizionalismo e la laicità dello stato, dismise l’Inquisizione; voglio dire, ma che volere di più? In poche mosse questa gran signora mise delle sane toppe alle storture che i paesi del Vecchio Continente si erano trascinati per tutta l’epoca moderna.

Come già accennato blaterando a proposito dell’Orto Botanico, anche la Biblioteca Nazionale Braidense trova dunque la sua ubicazione nello ‘stracolmo’ palazzo di Brera, tra Pinacoteca, Accademia, Museo Astronomico e appunto il succitato orto. Quanta robba insomma signori miei!
Un’istituzione antichissima, dicevamo, che trae la forza della sua bellezza precisamente e dalla ‘scientificità’ che la informa (è, oltre che istituzione storica, biblioteca tutt’ora attiva, al prestito e alla consultazione), e dal suo aspetto, maestoso da togliere il fiato: dopo aver lasciato armi e bagai in un apposito stanzino (perché anche voi, facce d’angelo dei miei lettori, potreste in fondo rivelarvi sgraffignatori di libri antichi) e percorsa l’ultima rampa di scale che vi separa da questo empireo della cultura, potrete finalmente avere accesso al meraviglioso luogo in questione, superando una già irresistibile porticina lignea con targa in caratteri d’ottone che ci indica, come lo stemma in ferro battuto incontrato più sotto, la via corretta per la Biblioteca Nazionale Braidense.

Ed ecco che, arrivati qui, al cuore delle stanze dell’immenso ma sempre troppo piccolo per tutto ciò che ospita palazzo di Brera, siete pronti a farvi impossessare dallo stupore, dal silenzio, dalla meraviglia più completa e perfetta. E pure da un po’ di ‘trepida d’ansia’ e di soggezione, come racconta il buon Bianciardi nella sua Vita agra, che si apre proprio con una descrizione assai gustosa, bianciardiana appunto, di questa sala solenne. L’ambiente che vi si aprirà allo sguardo, progettato in tutta la sua scenograficità da Giuseppe Piermarini, è interamente di legno, come rettamente ci si aspetterebbe da una biblioteca antica. Se è vero che la Sala Maria Teresa non è la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna (guarda caso austriaca pure quella), il luogo in cui muoverete felpatamente i vostri passi per non disturbare i lettori seduti nelle sale affianco (e una di queste, la più piccina e raccolta, è dedicata alla grande scrittrice, poetessa, pittrice nonché eroina della nostra Resistenza Lalla Romano), vi ispirerà un senso di commosso rispetto per tutta la cultura che ospita e che esprime: le pareti della biblioteca sono infatti interamente perimetrate da una scaffalatura continua, dai caldi toni del legno di noce, e su ogni scaffale è riposto un quantitativo ingente di libri. Antichi. Con il dorso in pelle rilegato, a volte anche un po’ macilento, a suggerire, nel suo aspetto fragile, la caducità della materia di cui è costruito ma anche la solennità e l’immortalità di quanto vi è scritto – stampato – sopra. Consegnatoci dalla Storia. È difficile spiegare, bisogna vederlo. Per me, che diedi dos esami sul tema della nascita della stampa e del libro antico, entrare qui è un’emozione fortissima. Tutte le cose antiche che hanno attraversato i secoli, del resto, la scatenano. Ma i libri antichi ancor di più. Perché sono un oggetto magico, in fondo. Non importa di che parlino; appunto parlano. Sono un dono, forse il più prezioso, del passato. E si incarnano in una materialità, sempre, come ci ricorda il buon Roger Chartier. Non è solo e puro ‘testo’: è primariamente oggetto, il libro. Che ci racconta, anche, un’affascinantissima storia della tecnica e degli uomini, delle maestranze artigiane e dei ruoli coinvolti nell’industria editoriale… Che è, non a caso, la prima industria moderna. Per capitale, per le organizzazioni sindacali nate per la prima volta in seno ad essa e per le relative, spesso aspre rivolte, per la suddivisione e la specializzazione del lavoro. Nonché per la progressiva meccanizzazione degli strumenti impiegati.

Per questo, a colpo d’occhio, percorrere con lo sguardo e abbracciare la visione della sala Maria Teresa, spaziando da sinistra verso destra e in basso verso l’alto (da notare il meraviglioso ballatoio, che crea un doppio piano parimenti stipato rispetto al primo), mi riesce emozionante. Soprattutto se alla Sala Maria Teresa ci vai un giorno in ottima compagnia e, a tradimiento, una commessa ti sfila un libro antico a caso dalla parete e te lo apre davanti, sotto al tuo naso. Te lo mostra, lo sfoglia, e tu lo puoi guardare da vicino, senza vetri in mezzo. E ti ritrovi senza volerlo, incitata da un improvvisato pubblico di due giovani signori sconosciuti ma parecchio interessati, a tenere (io, mon dieu!) una lezione sul libro antico (ah-ah-ah-ah-ah-ah-ah!), fonte il testo,  bellissimo, di Baldacchini. E spieghi e indichi – su un esemplare dal vero, cristo re! – il corsivo aldino. E racconti delle resistenze culturali che gli uomini della generazione del manoscritto ebbero nei confronti del nuovo libro a stampa, infinite volte meno prezioso allora, e soprattutto considerato infinite volte meno affascinante. Quasi meno veritiero. E poi accorgendoti che il piccolo ma lusinghierissimo uditorio è intrippato assai, e a momenti prende appunti (oh davvero, questa è una delle cose più assurde e belle che mi siano capitate chiacchierando con degli sconosciuti!), ti soffermi anche a parlare dei nemici dei libri: il deterioramento degli inchiostri (come quello ‘arsenicato’ citato da Bianciardi, colpevole dopo duecento anni di 'rodere la carta'), muffe, animaletti, pesciolini d’argento e inadeguate condizioni termoigrometriche di conservazione… Insomma signori, una mattinata involontariamente epica! In cui comunque ho molto sudato dall’ascella, perché se è vero che in questo bloggo sono una sbruffoncella e scrivo quel che mi pare, fare il relatore (io! che nun so un cazz!), inaspettatamente, per giunta in un luogo storico e davanti a della gente che, nonostante il tuo essere manifestatamente una comune passante, ti incita e ti prende assai sul serio, financo ringraziandoti alla fine (!), non è che mi riesce proprio facilissimissimo.

Ma riprendendo il filo del nostro discorso…
Insomma, già per tutti questi motivi che ho elencato, come potrebbe la Sala Maria Teresa non essere un luogo del mio cuore?

Ma ebbene signori, c’è dell’altro. Ci sono le mostre temporanee, tutte molto belle (e aggratisse vorrei anche sottolineare). Che poi sono l’occasione per tornare in questa antichissima e meravigliosa biblioteca, tornare, tornare e ancora tornare. Nel frangente di queste esposizioni vengono all’uopo allestite le teche di legno e vetro che occupano la sala, dove esposti sono di volta in volta libri antichi, libretti d’opera, ex libris a stampa… Insomma, la Biblioteca Braidense non si smentisce mai.
Eppoi c’è un altro meraviglioso motivo per cui non si può amare questo luogo, che concorre anche questo alla definizione di un’atmosfera solenne e magica: i due lampadari. I due enormi, sfarzosi, bellissimi lampadari. Che durante le mostre riflettono in maniera proprio bellina le loro lucine sui vetri delle teche. Due giganteschi lampadari in raffinato cristallo di Boemia, a gocce sfaccettate; due degli oltre venti disposti su tre file che adornavano in maniera eccelsa, con il gioco dei loro mille riflessi sfavillanti, la Sala da Ballo di Palazzo Reale, ossia l’antica Sala delle Cariatidi. Tutti gli altri videro infrangersi la loro eleganza e il loro lucente sfavillìo sotto le bombe che colpirono Milano nel ’43. Deturparono e menomarono le sculture disciogliendone le fattezze, abbattendo completamente il soffitto dell’ampio salone. Che non fu mai ricostruito com’era un tempo, scelta-memento contro ai rovinosi, per dirla alla Goya, disastri della guerra. Gli unici due lampadari superstiti, frutto di un’attenta ricostruzione, trovarono qui la loro nuova dimora: splendenti come un tempo, a dare e ricevere lustro a questa sala consacrata al libro antico, alle scienze, alla letteratura, alla giurisprudenza, all’astronomia. Alla cultura. Una cultura pensata per tutti, in quanto ovviamente biblioteca, ente preposto alla propagazione del sapere. Che è una delle cose più belle e importanti alla quale una civiltà degna di questo nome dovrebbe sempre provvedere, onde poter modellare uomini adulti, fuoriusciti dallo stato di minorità – per citare il pensatore di Königsberg in uno dei suoi più celebri passaggi.

E mentre vagherete con lo sguardo tra gli scaffali, rimanendo a bocca aperta per la quantità di tesori che vi sono custoditi (notando anche, con una certa ironia, come il ‘peso’ della cultura abbia felicemente imbarcato le mensole lignee), vi perderete nella contemplazione di questo cosmo incantato, dove assaporare ‘ sul campo’ la vicenda di uno dei più cruciali trapassi culturali avvenuti nel corso della Storia: la nascita del libro stampato e la sua diffusione. La diffusione cioè della cultura e del sapere, la loro accessibilità, la fondamentale premessa della loro messa a disposizione per chiunque. Proseguendo dunque il vostro tour con aria leggermente poco intelligente, colti e sopraffatti dalla totale, affascinante meraviglia che vi attornia.

Il tutto… Il tutto sotto allo sguardo pacioso e sorridente della tracagnotta sovrana Maria Teresa d’Austria, illuminata e luminosa, che, nel vostro incantato vagare, vi guarda e vi segue con aria soddisfatta dal grande ritratto che campeggia all’ingresso della sala; era proprio questo, del resto, quel che voleva che accadesse.














martedì 9 giugno 2015

RdP – Rosso, viola, giallo, blu. La trapunta di fiori al Castello Sforzesco

Orbene, se è vero che in queste pagine abbiamo già enunciato il concetto della beltà di Milano, sarà opportuno ricorrere allo strumento della Rubrica del Piccione per cristallizzare in queste cronache – più che di Milano come sapete del mio quoricino – alcune inattese immagini meravigliose offerteci dalla città mediolana in questo scorcio di primavera.
Che ci racconta questa volta il piccione Ambrogio, dopo avere per l’ennesima volta scaricato il discutibile contenuto dei suoi intestini sulle portiere della mia auto, perdio, che mai come in questi giorni è guanata assai?
Ci racconta di quanto bello è, in questo periodo, il Castello Sforzesco, e nella fattispecie il suo nobile Cortile delle Armi, dove peraltro cose molto carine e importanti son accadute per me… Ma non è di questo che ora parliamo. Ne parleremo quando sarà dedicato un pezzo, che immagino mooolto luuungo, proprio al Castello Sforzesco.
Per ora, in questa nostra rubrichetta ambrosiana, mi limito a descrivere lo spettacolo grandioso che, da qualche giorno a questa parte, rende ancora più speciale Milano. Non sto parlando della nuova collocazione della Pietà di Michelangelo, pietà, è proprio il caso di dirlo (“Come sfracellare un allestimento storico del gruppo BBPR e trasformarlo in un ‘evento’ ché la gggente vuole vedere solo un’opera – non di più eh, per carità – purché sia importante –pardon! purché le dicano che sia importante”); parlo difatti di quella meraviglia multicolore che si stende in due aiuole del cortile: due campi a fiori. A fiori di campo. Splendidamente mescolati tra loro, senza regola, senza divisioni, senza giochetti geometrici da giardiniere privo di fantasia. Papaveri, fiordalisi – questo l’ho sentito dire a una signora, mi debbo fidare? (googleimmaggini comunque suffraga la signò!) – e altri non meglio precisati ma bellissimi fiorellini. Non le solite pansè insomma. Che insieme creano un campo verde a composizione libera, puntellato di macchioline ora più grandi ora più piccole di tutti colori: rosso, rosa, fucsia, blu, viola e giallo. Tra l’altro signori vorrei anche dire che è qui, a Milano, al Castello Sforzesco per giunta, una delle opere più spettacolari, grandiose e belle della nostra città, che io ho appreso che i papaveri non sono solo rossi, ma alla sommità dei loro esili ma resistenti steli pelosetti possono essere pure rosa, bianchi, e rossi con il dentro ('il dentro' gesù, apprezzate tutta la mia scienza botanica) non nero ma bianco… Apperò.

Quindi ecco, una visita la vale proprio, ma non solo una: questa visione meravigliosa sarà approdo durante le vostre passeggiate in centro, prima o dopo aver sorbito una granita sicula, arrostendovi al sole sulle panchine di pietra, oppure inseguendo gli angoli ombreggiati del Cortile delle Armi, lungo la parete col bugnato a trompe l’oeil, o, ancora, camminando in mezzo ai fiori… Sì, in mezzo: percorrendo dei sentierini che vi faranno sentire completamente circondati (se non sovrastati, se come me siete più nani dei gambi di papavero) da questa natura generosa e superba, spettacolo incredibile, qui, a Milano, in pieno centro città.
Insomma, se l’ondata di caldazza non infragilirà fiaccandole queste aiuole magnifiche, ciò che si può e si potrà ammirare all’ombra della Torre del Filarete sono due campi dalla trama pittorica, che sembrano visivamente usciti da una tela del Klimt paesaggista, o di Monet, ricordando anche, quantomeno per tonalità, i fiori galleggianti del vano bouquet d'una sposa mancata, che attorniano l’esanime Ofelia di Sir John Everett Millais; solo che anziché essere partoriti con molta poesia dalla tavolozza e dal meticoloso pennello d’un pittore, sono esplosi a primavera a Milano, grazie a un mescolìo casuale di sementi. Spontaneo. Meravigliosamente imprevisto. Che ci mostra quanto la natura sappia bene come essere suggestiva, specie se inquadrata dalla cornice storica del nostro Castello e delle sue spesse mura fortificate.