venerdì 28 febbraio 2014

Stazione di Milano Centrale – Arrivi, partenze, ritardi


Dedichiamoci ora a quella che può essere a ben diritto considerata la porta, l’ingresso di questa città, al punto che sarebbe forse stato logico e sensato incipiare il bloggo proprio con questo pezzo (ma ammetto di non avere molta confidenza con le cose logiche e sensate): stiamo parlando della Stazione Centrale di Milano.
Ora, se siete forestieri in Milano, di passaggio in Stazione Centrale, e vi siete persi, e vi dovesse capitare di incontrare me sul vostro cammino, fate caso alla mia espressione perduta e sconvolta, e cacciate indietro il proposito di chiedere a me indicazioni. Probabilmente, oltre ad essere di sicuro in ritardo, mi sono appena persa anch’io, e anch’io, pur essendo autoctona, sto puntando un cristo a cui chieder lumi.
La Stazione Centrale post intervento di riqualificazione, ultimato nel 2010, è un involucro di anfratti, piani ammezzati, corridoi ciechi, connettori mobili, passaggi, ingressi laterali, imperscrutabili scale che si tuffano nelle viscere cittadine della metropolitana milanese. Ci vorrebbe un gps per orientarsi, figuriamoci come potrebbe cavarsela una porella, cioè io, notoriamente priva del benché minimo senso dell’orientamento.
I miei unici punti di riferimento sono, nell’ordine, l’ingresso che da sulla stazione dei taxi (ma a volte in uscita mi sbaglio pure su quello, e riemergo dal lato opposto); il tabellone gigante degli arrivi e delle partenze; e, last but not least, il bar Segafredo, quello tutto rosso e lucido, senza posti per sedersi ma con un paio di tavoli alti, per un caffettino rapido ma buono.
Vista da fuori la Stazione Centrale è un edificione intarsiato in una sorta di decò fascista, tra aquile, cavalli, chimere e leoni aggettanti, sigle SPQR e altri tocchi di romanità, nei bassorilievi e nelle teste con elmo. D’altra parte s’era nel 1931 quando venne ultimata, opera di Ulisse Stacchini (autore pure dello stadio di San Siro, sapevatelo!). Ma nei suoi fregi squadrati e severi, dal tocco faronico, c’è addirittura qualcosa di egizio. Per apprezzare in pieno il linguaggio art decò che ne informa i dettagli, inoltre, occorre cercare con lo sguardo lampadari e punti luce sparsi per gli atri e le gallerie, precipuamente plasmati da questo stile.
Il meglio di sé lo dà però nella volta sopra i binari. È lì che, in mezzo ai suoni, alle folle, al caos e alle correnti d’aria gelida che solo le stazioni hanno il piacere di offrire, tra un ipnotico piccione che si muove a scatti (il pegione è, d’altra parte, pur sempre un simbolo meneghino) e che, esattamente come voi, non capisce se è ancora dentro o se può considerarsi già fuori, appare la piena bellezza della Stazione Centrale di Milano: la sua superba volta internazionale, a tre navate, in ferro e vetro, à la Galerie des Machines di Dutert e Contamin, nobile capostipite del genere. Roba da commuoverti per il maestoso nitore delle sue linee arcuate e delle sue nervature, come se fosse uscita da una foto d’epoca pubblicata su un manuale di storia dell’architettura, quelle foto in bianco e nero che vogliono mostrarti la modernità d’un progetto; e allora ti sembra di intenderla, tutta quella modernità, una modernità che rimane moderna ma che è già un classico. E che ti fa esclamare dentro, nonostante la fretta, nonostante il rimbombo, nonostante il freddo, nonostante i passanti che coi loro bagai a ruote cercano, allegri chirurghi, di amputarti uno o più piedi e nonostante il solito, onnipresente dubbio di non aver azzeccato il binario giusto: porca puttana che stazione la Stazione Centrale di Milano!

Per me la Stazione Centrale è luogo non solo di viaggi, miei ed altrui, ma anche di transiti esistenziali, di mete raggiunte, di persone viste arrivare e ripartire, a volte senza sapere se e quando le avrei riviste. Sì lo so, facile dire così, ma v’assicuro è proprio vero.
Alla Stazione Centrale ho accolto una persona che sarebbe diventata molto importante nella mia vita, appena approdata da Roma. “Con la stazione avete vinto, è molto più bella di Termini” son state le sue prime parole in terra milanese. Oh, non so come ma il regazzetto sapeva già come far colpo.
Dalla Stazione Centrale ho affrontato il mio primo viaggio in treno da sola: un impegnativissimo Milano-Novara di quarantacinque minuti che mi pareva una cosona epica, per il quale ero equipaggiata come manco un papaboy in viaggio per la giornata mondiale della gioventù; per poi scoprire che ci si impiega più tempo a far, Milano per Milano, da Duomo a casa mia.
Sicché, snocciolando una metafora imperdonabilmente abusata, è vero che le stazioni, e ancor più la Stazione di Milano Centrale, somigliano alla vita. Treni che vanno e che vengono, ed anche persone che vanno e che vengono. Snodi, coincidenze, partenze, arrivi. Il tutto in un dedalo labirintico in cui incontrarsi, non incontrarsi, perdersi e trovarsi è veramente il più puro frutto del caso.

Suggerimento per la visita
(Rubrichetta del a chi vuoi che gliene impipi)
Asseriva qualcuno che fosse cosa suggestiva recarsi nelle stazioni senza avere necessità di partire, ma solo per scrutare le facce dei viaggiatori e partecipare dell’atmosfera. Balle: la Stazione Centrale la si deve vedere solo se si deve viaggiare, o andare a prendere qualcuno, nel ristretto lasso di tempo di quei minuti indispensabili. Così della Stazione non saprete un cazzo né lo imparerete mai, e saranno corse, strade sbagliate, richieste di indicazioni elemosinate piangendo ai passanti. Perché è solo così che, della Stazione Centrale, potrete assaporare l’intimo suo brulicare, e il suo caratteristico, informe e seducente caos.









venerdì 14 febbraio 2014

La cripta senza chiesa: San Giovanni in Conca, un romanico a Milano


Non importa da dove siate arrivati, se da via Mazzini, se dal dedalo di stradine che si dipanano di fronte a piazza sant’Alessandro o se vi siate appena lasciati alle spalle la Torre Velasca, scendendo da quella via molto larga che si chiama via Larga: il fatto è che ora siete in piazza Missori, e la cosa è esattamente là in mezzo.
Sei siete di Milano molto probabilmente anche voi, come me, nel peregrinare frenetico tipico di questa comunità così operosa, opulenta e vanitosa (cit.), ci sarete passati davanti un miliardo di volte, notandola sì, ma sempre troppo di corsa per vederla davvero; rimanendo così sospesi, per un rapido nanosecondo, in un grano di curiosità e chiedendovi anche voi, come me: oh, ma chissà che minchia è quella roba là! Un lampo, solo un fugace baluginio mentale, e poi il ritorno ai vostri pensieri e alle vostre faccende. Sicché è facile che poi, immersi nei ritmi convulsi di cui sopra, vi siate scordati di approfondire, trovandovi ancora a non conoscere una bega di questa cosa, che stà là, nel mezzo di piazza Missori, con la sua forma accattivante, con la sua offerta d’altrove che spezza – discreta ma potente – il volto più omogeneo dello slargo viario.
Quella cosa è un'abside. O almeno quel che ne resta. I mattoni rossastri descrivono una curva, tipica del perimetro murario del retro d’un altare. L’altare d’una chiesa romanica, San Giovanni in Conca. Della chiesa oggi resta solo ciò che si vede: i resti della parete absidale, con una bella monofora, apertura scenografica sulla boccioniana Milano che sale più oltre, coi suoi palazzi, coi suoi tram arancioni e nei giochi sovrapposti dei loro pantografi; e la teoria d’archetti svuotati, tipica del romanico meneghino. 
Ma della chiesa, invero, resta anche ciò che non si vede. O meglio, per vederlo bisogna scendere. Dietro ciò che resta dell’edificio di culto c’è infatti una scala in pietra, alla quale si accede attraverso la porta d’un cancelletto in ferro. Se la porticina è munificamente aperta, allora potrete scendere; preparandovi a uno spettacolo assolutamente irripetibile in Milano. Percorsi i gradini, fiancheggiati da un bel verde fiorito, ecco aprirsi allo sguardo l’ambiente di quella che fu l’antichissima cripta della chiesa. L’unica romanica originale che oggi si conservi a Milano.

In effetti la chiesa di San Giovanni in Conca ne ha vissute davvero di ogni. Sconsacrata dagli austriaci, fu chiusa dai francesi che la trasformarono in magazzino di ferramenta e carri. Poi arrivarono gli svedesi e… scherzavo, gli svedesi in questa storia non ci sono. Ad ogni modo susseguentemente fu deciso il riassetto urbanistico della piazza, che decretò nel 1948 la demolizione della chiesa per ragioni viarie. La facciata fu venduta ai Valdesi, che se la rimontarono, con qualche variazione, nella loro chiesa, nella vicina via Francesco Sforza, di fronte alla Guastalla; e così, a testimoniare antichi riti, rimase solo l’abside diroccata, quasi un capriccio in mezzo al paesaggio urbano via via modernizzatosi, e poi, appunto, la cripta. Una cripta senza più chiesa. Al suo interno, lungo il perimetro, sono esposti, oltre a interessanti foto che documentano le fasi finali dell’esistenza dell’edificio, antichi reperti rinvenuti in zona: statue, pavimenti, decorazioni. La scoperte migliori sono però visitabili al Castello Sforzesco e anche all’adorato Museo Archeologico di corso Magenta (ne parlerò, per me è un pezzo di cuore): su tutti il bellissimo pavimento musivo con decorazioni geometriche e la raffigurazione d’un felino, appeso alla parete sulla destra del Museo, appena entrati.
La cripta di San Giovanni in Conca per me è un luogo commuovente: là fuori, in alto, la vita brulica, i milanesi ci passano e ripassano sopra e accanto… e la cripta è là, sotto i loro piedi, da secoli, fedele a sé stessa, nel suo fresco umido naturale.
Un giorno che ero sotto per le solite cose son scesa dal tram per tornarci, e passeggiare sotto alle sue volte basse, tra i capitelli smussati delle sue colonne di pietra, materiali di riuso come vuole, del resto, il romanico medesimo. La cripta mi ha accolto senza dire una parola, e si è lasciata guardare come si guardano i miracoli, e le cose tenacemente resistite a un destino che ne avrebbe comandato la dispersione. La chiesa non c’è più, ma per fortuna la cripta è ancora al suo posto, suggestiva bolla d’ossigeno nelle viscere cittadine. Due chiacchiere con la volontaria del Touring, un ultimo sguardo e poi il respiro finale: inforcando le scale in salita, per tornare nella frenesia della città che sale. Con un iniezione di bellezza nel cuore, che d’accordo, non avrà spazzato via del tutto ogni tristezza ma tant’è. 







domenica 9 febbraio 2014

Acquario e Civica Stazione Idrobiologica de Milan


Alla seconda tappa di questo tour immaginario per la città di Milano si sosta all’Acquario Civico. Che è un gioiello semisconosciuto della città meneghina.
Si trova in zona Lanza, nei pressi del Teatro Strehler e a ridosso del Parco Sempione. Prima ancora delle vasche, un po’ d’attenzione la merita l’edificio stesso. Questo bel palazzotto fu realizzato nel 1906, in occasione dell’Esposizione Internazionale di quell’anno, ospitata dalla città di Milano. E fu, per fortuna, l’unico fabbricato a non essere demolito a seguito della manifestazione.
Innanzitutto ci saremmo persi un vero e proprio saggio di liberty internazionale, con tutti gli avvolgenti stilemi del repertorio: la vetrata che sovrasta la fontana all’ingresso, il fregio a nastro di maioliche verde acqua, realizzate dalle manifatture Richard Ginori, bassorilievi e aggetti in pietra raffiguranti alghe, conchiglie, scorfani, piovre; una grammatica art nouveau declinata con impegno al tema dell’elemento acquatico.
All’ingresso, a dirigere i destini delle creature marine, nientepopò di meno che Nettuno, ignudo, presa salda al tridente e aria severa, diciamo pure incazzosa. Al di sotto della statua, la fontana, in cui l’acqua sgorga dalla bocca d’una protome d’ippopotamo: davvero caruccia la fontanella, coi suoi pescetti rossi che sembran guizzati fuori da un quadro di Matisse, e quel suo bel muschio verde cresciuto aggrappato alla pietra.

La struttura interna dell’Acquario è quella d’un anello: una passeggiata circolare tra vasche di pesci e animali acquatici. C’è un polpo, la donzella pavonina (è un pesce transgender), una razza di sicuro e un sacco di stelle marine rosse, anche se alcune hanno una zampetta amputata. Se si è molto fortunati, in alcuni oblò circolari, in un’acqua illuminata da una luce blu, si possono ammirare le meduse: bianche, trasparenti, immote, appena cullate nelle loro parti molli dall’acqua. Sono gli organismi viventi che più trasmettono un’idea di eternità. Hanno un fascino tutto particolare, inesplicabile come l’infinito che a dispetto del loro sembiante evanescente sembrano in grado di incarnare.
La più gettonata è la vasca dei pesci tropicali: è quella più colorata e illuminata, e ospita pesciolini di tutte le tinte che fan molta presa sui bambini. Però merita assai, quindi se la trovate impestata di marmocchi eccitati attendete – pazientemente e senza ringhiare (come invece farebbe una amica mia quando vede grappoli di mocciosi) – che costoro abbian sciamato per godervi pure voi lo spettacolo, anche se siete un po’ più grandicelli. In effetti, va detto, l’utenza dell’Acquario Civico meneghino è proprio composta prevalentemente da famigliole con rampolli al di sotto del metro emettenti strida e versi di intensità inversamente proporzionale alla loro nanaggine (io comunque confesso non li supero poi molto in altezza eh).
Davvero bello poi il tunnel di vetro: non sarà quello dell’Aquarium de Barcelona, d’accordo, però è una vera chicca. Da vedere la razza, con il suo muso schiacciato, osservabile da un’angolazione irripetibile e vantaggiosa.
Terminata la visita alle vasche, è proprio il caso di fare una mezza sortita pure fuori, nello spazio aperto retrostante l’Acquario, tra i piccoli bacini artificiali dove, in caso di bel tempo, si potranno ammirare colonie di tartarughe d’acqua, perfettamente immobili, intente a godersi il solleone. Ma se è estate e volete cocervi, potete rientrare nell’edificio, percorrere le scale interne e fare un salto nell’ampia sala all’ultimo piano, adoperata, come l’atrio di ingresso, per le mostre: assolutamente da vedere il tetto a travi di ferro, ma sappiate che ci si crepa di caldo. Se ci fosse qualche grado in meno e un bar con tanti tavolini entrerebbe nella top five dei luoghi migliori di Milano per trascorrerci il pomeriggio.

All’Acquario Civico di Milano son stata un bel po’ di volte. Ci si torna sempre volentieri, col pretesto d’una mostra (ne vengono organizzate rigorosamente a tema dell’acqua: molto bella e suggestiva quella della fotografa americana Mikelle L. Standbridge) o di portarci qualcuno che non l’ha mai visto, o c’è andato da piccino, come ho fatto io con le persone della mia coorte. E posso dire infatti di averci vissuto dei bei momenti, guardando sì nelle vasche le creaturine acquatiche, ma spiando nel riflesso del vetro e dell’acqua la reazione delle persone che eran con me, e sorridendomela dentro ai loro sorrisi e al loro entusiasmo. È un tuffo insomma, benché non letterale, a meno che non vogliate farvi arrestare, in un altro mondo, con altre luci, altri suoni, altri ritmi, altre forme di vita. Ogni tanto fa davvero bene immergersi.

Suggerimento per la visita
(Rubrichetta del a chi vuoi che gliene impipi)
Contrariamente a quanto asserirei in altri casi, per quel che riguarda l’Acquario alla fine io consiglierei pure d’andarci quando ci si posson trovare le famigliole con gli infanti, poiché questi ultimi animano il contesto e ci ricordano che si può e anzi si deve ululare d’esagitazione ed entusiasmo per tutte le cose che sono piccole e speciali, come ad esempio gli animaletti marini.



domenica 2 febbraio 2014

Torre de Velasco, un’apparizione


Orbene, incignamo il bloggo con una delle presenze architettoniche milanesi maggiormente significative: la Torre Velasca, come da titolo, un’apparizione.
Di giorno si coglie in pieno questo suo aspetto quasi sovrannaturale; di sera assai meno in effetti, il che potrebbe essere pure un po’ paradossale, ma è vero che l’attuale illuminazione in notturna è veramente scarsina, e – giga errore – non ne mette in risalto il profilo, che è poi la cifra della sua unicità.   
Ma di giorno no. Di giorno si vede benissimo.
Di giorno la Torre Velasca è un grumo di cemento rosato che esce, lievita dai tetti di via Larga. Sorprendente e immobile si staglia nel cielo di Milano. Ed è milanesissima.
Saggio di brutalismo targato Gruppo BBPR, fu ultimata nel 1957, otto giorni prima della prevista fine dei lavori. Milanesissima, dicevamo, anche in questa puntualità quasi pedante.
Bella ma non vistosa, nonostante l’aumento di planimetria ai piani superiori, che la devia dalle forme consuete del grattacielo, e che indusse il Daily Telegraph a insignirle, nel 2012, il primo posto nella classifica degli edifici più brutti al mondo. Buondio, questi inglesi non capiscono un cazzo. La Torre Velasca è semplicemente bellissima.
Per  via  delle  sue  travi oblique, quasi  una  trasposizione  concreta  dei  disegni  più  arditi  del   buon Eugène  Viollet-le-Duc, i milanesi la soprannominarono ‘grattacielo con le bretelle’ o, più maliziosamente, ‘con le giarrettiere’. Nel complesso non possiede per nulla un aspetto tozzo, e se è vero che non è slanciata è però misteriosamente equilibrata nelle sue forme, solido gigante di béton brut.
Le parole migliori per descriverla sono quelle di uno dei suoi creatori, Ernesto Nathan Rogers:
“La torre si propone di riassumere culturalmente e senza ricalcare il linguaggio di nessuno dei suoi edifici, l’atmosfera della città di Milano, l’ineffabile eppure percepibile caratteristica”.
Imparate a memoria questa frase e fatevi fichi con gli amici, pronunziandola a surprise (ma anche con un certo grado di disinvoltura, mi raccomando) mentre ci passate sotto: cos’è in effetti la Torre Velasca, sgraziata ma in realtà bellissima, se non un condensato culturale della città di Milano?

Ecco, per me la Torre Velasca è esattamente un’apparizione. Bella e strana da sembrare inventata, uscita dall’inchiostro d’un fumetto vintage di supereroi, più dei grattacieli a sezione sottile che gareggiano in altezza, impegnati a primeggiare, ma senza troppa personalità.
Per me la Torre Velasca è l’apparizione vista correndo, nel mio irregolare andirivieni per quelle zone, perennemente in ritardo e con le guance tagliate in due dal freddo milanese; ma forzatamente ferma al semaforo pedonale di piazza Velasca – che non è per soffrire di manie di persecuzione ma giuro che non m’è capitato una volta che fosse una di beccarlo verde in vita mia. Ma queste son quelle piccole beffe del destino burlone che si rivelano al contrario prodighe assai. Difatti: tutto il tempo di guardarmela, la Torre Velasca, e di scoprirla epifanicamente nella sua potenza; e di perdermi nelle sue scanalature rosate, nella sequenza ritmica delle sue finestrone, nella sua immobile solidità. E ci si perde talmente tanto da far diventare il semaforo che dapprincipio era rosso verde, e poi rosso di nuovo, o forse sono io che son cogliona. Oppure è la Torre Velasca che è bellissima, o con molta probabilità in effetti tutte e due le cose.
Vederla in una domenica mattina grigia e plumbea è aspirare, quasi farsi un aerosol di milanesità, cacciandosela fin dentro ai polmoni (a vostro rischio insomma). E per fruirla al meglio non posso che suggerire una sosta nel bar di fronte, quello ad angolo, bianco e lucido, interamente vetrato. Il caffè è buono, le sedie e i tavolini in giusta quantità, e se si solleva la testa la Torre Velasca riappare ancora, così vicina da non vederla allungarsi nel cielo. Invece lo sai che spicca dai tetti circostanti, con l’aria di chi la sa lunga ma non lo dà a vedere. Intoccata nella sua potenza, figa e modernissima, distillato puro dell’anima imprendibile di questa città.